Sono nata a dicembre, e vuoi il dna, vuoi le stelle, vuoi semplicemente l’indole e la ricorrenza di tre settimane di festeggiamenti nel mese più buio e insieme più luminoso dell’anno tra alberi e luminarie per strada, dicembre è anche un po’ il mio mese preferito. Da qualche tempo è diventato più che mai il mese degli affetti, di casa come concetto allargato che abbraccia volti, sorrisi, ricorrenze e attese da vivere in un calore che mi fa sentire bene. È un calore che va alimentato come ceppi in un caminetto: se li togli, torna il freddo. Per questo ogni anno mi impegno a vivere al meglio il periodo dell’Avvento e del Natale, e arrivo al 31 dicembre piuttosto appagata, con le idee chiare su quel che mi sto portando dietro nel bagaglio con cui mi presenterò alla porta dell’anno nuovo.

Ci siamo dunque anche quest’anno, e le idee sono tutte qui, limpide come fiammelle delle tante candeline che ho soffiato e acceso nel mese dei miei 33. All’età di Gesù Cristo dovrei forse poter dire di aver raggiunto una certa fase dell’età adulta, ben collocata tra scarpe di vita vissuta, tasche ricolme di esperienze, consigli nel cappello e cinismi come assi nella manica, caramelline balsamiche per i sentimenti odiosi che specialmente nelle Feste si fanno più insidiosi.

Comunque io mi trovi vestita e abbigliata, in questo Capodanno dei 33, credo di essere in un raro stato di equilibrio e serenità. Me ne meraviglio, perché se vado indietro a quest’anno rivedo mesi di corse allucinanti, di delusioni che mi hanno scosso, di emozioni forti, siano esse positive e sorprendentemente negative. In entrambe le ipotesi, la forza delle emozioni di questo anno agli sgoccioli è stata notevole. Strappi decisi, un lembo di lenzuolo che straaaaaap si stacca dal resto, stile pubblicità anni Novanta della candeggina Ace, per intenderci. Un bianco telo strappato nel cuore dell’estate è una ferita che è dura risanare. Sono serviti cerotti, pomate, attesa e speranze. E molta, moltissima pazienza. A volte non è bastata, e la ferita bruciava, a colpi di detonazioni riprendeva a sanguinare, non c’era verso di chiuderla.

Adesso che siamo arrivati a fine anno, che chilometri, treni, aerei, lacrime e silenzi si sono adagiati sul fondo dell’anno come i pallini bianchi scesi a fingere una tempesta nella boule de neige, credo di poter dire che la ferita è sanata. Sanata, però, non vuol dire sparita. La cicatrice è ben visibile, ogni tanto me la figuro come un piatto spaccato a metà e curato con quel famoso metodo giapponese della doratura: la spaccatura non si può nascondere, e allora che si fa? La si riempie di oro, un simbolico stratagemma per tenere in vita anche le cose che si sono rotte, e nobilitarle. Ecco, con un colpo di reni mica da ridere, rimirando il mio strappo ho pensato che l’unico mezzo per uscire dai sanguinamenti repentini fosse proprio questo: riparare, senza l’aspettativa di riavere quel che c’era prima. Riparare, non arrabbiarsi, prenderla così, con la spaccatura dorata che sancisce la rottura, con un nuovo equilibrio appena nato, da far stare in piedi, curare, a cui stare attenti, perché è ancora fragile.

Vero, uno certe rotture non se le aspetta, non le ha pianificate, e quando arriva lo strappo è una roba gigante e di una malvagità rara: difficile arginare, difficile tenersi saldi al comando della rotta. Ci sono stati pomeriggi di assoluta malinconia davanti all’orizzonte azzurro del mare, occhiali scuri per simulare una sicurezza che mancava del tutto. Ci sono stati Maghi Merlino e Dottor Freud pronti all’aiuto e al consiglio. C’è stato scavo, scavo, profondo scavo dentro per capire cosa non aveva funzionato fuori. Qualche frutto, forse, questo scavo lo ha portato. Dello stesso frutto ho una macedonia da servire pronta in tavola per il cenone di Capodanno, perché alla fine della folle rincorsa per stare a galla in un universo precario e cangiante credo di aver imparato a riconoscere le lucine della grazia che in varie modalità si affaccia a illuminarmi la strada, e allora sì, è il caso di fare un sorriso e spallucce a tutto il resto.

Nel 2019 ho scritto un libro. O meglio: nel 2019 ho finito di scrivere un libro, e il libro è uscito in libreria. L’ho presentato in una decina di posti in giro per l’Italia, intrattenendo sale e saloni, salette e angoli di città. Con quel parallelepipedo di carta che ormai fa parte di me come una specie di figlio (ogni scarraffone ecc ecc) ho conosciuto persone, a volte persone molto belle e preziose. Altre volte ho avuto la grazia di approfondire altri rapporti con persone che già facevano parte del mio mondo, e ne ho derivato regali preziosi e bellissimi, parole care, affetti speciali che mi porterò nel cuore, nell’anno nuovo e nel futuro, in generale. Dal libro ho capito che la cattiveria e l’invidia non sono spettri da evocare ma realtà solide che si aggirano per le strade, e a volte capita che incontrino la tua, quasi per caso, sorprendentemente, con tutte le conseguenze di sorta.

Nel 2019 c’è stato un sacco di impegno: la lettura, la scrittura, il libro e tutto ciò che gli ha ruotato intorno. C’è stata Torino, c’è stata casa, c’è stata una complicata Ravenna, una bollente Palermo, una sempre familiare Roma. Ci sono stati tanti di quei treni che a pensarci mi vengono le vertigini. Lavoro, dita sui tasti, idee stupide, altre geniali, tedio e ansia, entusiasmo a bomba, amicizia palpitante, nervoso e delusione, sensi di colpa, mancanze, attacchi di ridarella e tante di quelle parole da stordire chiunque mi sia capitato sotto tiro. C’è stata la radio, la stampa, una rassegna letteraria, gli esami all’università, e non sarà nemmeno un caso che io abbia iniziato il 2019 con una lezione di semiotica a Torino e lo abbia pressoché chiuso all’università di Genova con un seminario dedicato alle guide letterarie.

C’è stato di tutto, in questo 2019: la crisi di governo in agosto, le maratone Mentana e io con le cuffiette che ascoltavo dal mare. Le influenze plateali, le grigliate con la gente bella che si ricorda di te, i treni per Milano in compagnia, la metro di Roma per andare a trovare Camilleri al cimitero. Perché in estate, nel 2019, è anche mancato uno dei più grandi scrittori che io abbia letto e incontrato. La circostanza ha coinciso con il centenario di Primo Levi, che ho riscoperto e amato quanto mai, insieme alle due grandi scoperte lavorative che sono entrate nel mio patrimonio, Nuto Revelli e Bianca Guidetti Serra (e che fortuna, che straordinaria opportunità parlare di lei in un’intervista). Ancora, tra i “best” lavorativi annovero l’intervista con Christian Greco, nel mio vestito nuovo in una torrida estate sui tetti torinesi con il badge sul petto, e l’intervista alla figlia di Carlo Fruttero, realizzata con quelle teste fantastiche dei Radical Ging. A loro il merito di avermi riacceso la curiosità per Agatha Christie, dal mio libro a loro, invece, la miccia per riscoprire Fruttero e Lucentini.

Dai libri non sono praticamente mai uscita, sebbene questo blog sia stato un poco sguarnito: il tempo è mancato. Quello per scrivere qui di libri, non quello per girare per fiere editoriali (Milano, Torino, Palermo e Genova, che altro ancora?), leggere ancora e ancora, sprofondare nella meraviglia delle storie, parlarne su Lucialibri, scriverne per la radio, raccontarne in giro. E quante, ma davvero quante, e preziosissime, le conoscenze del mondo letterario, i messaggi di stima, le mail, gli incontri, le presentazioni che si sono convogliate in quella cosa emozionantissima andata in scena con me, Paola Cereda, Enrico Pandiani e il jazz dal vivo dei Night Dreamers. Sì, nel 2019 ho scritto un libro e l’ho presentato con del jazz live: chi lo avrebbe mai pensato?

E poi c’è stata Greta, e ci sarà ancora, io spero. Greta che è diventata persona dell’anno, Greta che è arrivata a imporsi così tanto perché finalmente i media lo hanno capito, che non si può soffocare dal caldo in città a giugno, che non è normale, che ci renderà la vita insopportabile. Greta che da marzo a dicembre è stata protagonista a Torino, con gli scioperi del venerdì che hanno contagiato la città, che mi hanno spinta a intervistare uno dei giovani attivisti quando ancora tutto era rarefatto e piccolo, prima che esplodesse la meraviglia dei cortei per strada.

Della presa di coscienza verde del 2019 mi ha stupita la potenza dell’inquietudine di un’intera generazione, senza confini o quasi nel mondo. Mi ha angosciata la constatazione di quanto ci stia sfuggendo di mano tutto, e mi ha però riempita di orgoglio il colpo di coda della comunicazione, quelle “merendine” che secondo i profeti della pochezza che spesso mi hanno ruotato intorno io studiavo a vanvera.

Invece la comunicazione è proprio al centro: ci siamo immersi, viviamo in questa bolla, e quante, quante fregature prendiamo quotidianamente. Ci scontriamo e cadiamo vittime di ipocrisie povere e a volte squallide, tristi e meschine, il più delle volte perché non hanno né una base né dei valori solidi. E invece dalla piccola roccaforte resistente che cerco di essere qualche piccola ed enorme meraviglia è uscita fuori durante il 2019 proprio da quei pilastri lì: i valori.

La bellezza, l’onestà, l’amicizia. Tre lance con cui andare incontro al mondo e cercare di non farsi prendere dal panico anche in mezzo alla peggiore delle tempeste. Che, imprevista, inedita e del tutto inaspettata, è arrivata infida come poche altre cose nel corso dei miei trent’anni. Destabilizzante: non ricordo nulla di simile, se paragonato. Paurosa, a sviscerare paure infondate e insicurezze che puntavano a una messa in salvo, che importa di tutto il resto?

Invece importava, eccome se importava. Me lo hanno suggerito gli amici che sono rimasti solidi a difendere i bastioni, alfieri nelle meravigliose corazze cucite di affetto e rispetto, me lo ha suggerito il perpetuo ritornare di sollecitazioni legate al mio lavoro, di piccoli successi, mosse corrette, previsioni ad hoc, me lo ha infine – e infine è solo perché è giunto il 19 dicembre – ribadito con voce limpida un messaggio vocale di una delle belle persone di cui è foderato per cura e fortuna il mio universo. E così me ne sono fatta una ragione, ho deposto le ansie e sfoderato i sorrisi felici: va tutto bene così.

La morale? Mai abbassare la guardia. Come ha detto Greta a Torino, c’è da combattere per il futuro, e il 2020 aprirà una decade decisiva in tal senso. «Con quel che si deciderà dovremo convivere per il resto delle nostre vite» l’ho sentita dire da piazza Castello «il 2020 sarà un anno di azione: se staremo insieme, possiamo farcela, possiamo fare il cambiamento». Il 2019 è iniziato davanti a una pentola che bolliva e alle tre persone a cui sono più legata: è qui che si aggrappa l’ultimo stralcio dell’anno, mentre fuori si allestisce l’ultimo tramonto dei tanti dolcissimi, struggenti, malinconici e di sconfinata dolcezza che mi hanno sospinta, sorretta e accompagnata fin qui.

No, niente bilanci: dei libri letti ho perso il conto e non ho mai tenuto una lista, di quelli che usciranno scoprirò leggendo e vivendo, perché non sono un critico letterario e perché di seo e di pezzi per blog acchiappaclick mi sono ampiamente stufata. Questa macchina fatta di schermo e tastiera, la cui prosecuzione viaggia in tasca e in borsa, fedele compagna degli ultimi anni con il nome di smartphone, è tanto utile quanto dannosa alla vitalità delle cellule grigie che tanto piacevano al detective Poirot. Fatevi un favore, per l’anno nuovo – ed è l’unica cosa che mi e vi dico in questo post – cercate di liberarvene quanto più possibile. Cercate di pensare che state scrivendo, interagendo, comunicando spesso con persone come voi, cercate di non essere ossessionati dalle mail anche a Natale, di non assillare su whatsapp, di non sbandierare gli affari vostri perché la notifica rossa vi dà soddisfazione e vi fa sentire migliori. Tornate per qualche attimo nel mondo vero, là fuori: rispettate i tempi, la stanchezza, il bisogno di stare offline vostro e altrui, rispettate il vostro spazio privato, rispettate voi stessi. Ritrovatevi. E prendetevi cura, di voi, del mondo che vi ospita e di chi vi sta intorno.

 

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!