Se penso a come è trascorso il primo giorno di febbraio e a come il mese è finito, giuro, ho un cortocircuito mentale. Non capisco, il tempo si scioglie in una pozza, perde forma, si allarga, si fa inconsistente, indistinto. Bugo, Morgan, il Coronavirus: i temi forti del febbraio 2020. E per quanto mi riguarda, la pozza è quella fonda e brutta delle delusioni, delle spalle voltate, dei ricatti ingiusti, dell’inadeguatezza, del senso di colpa ingiusto e delle illusioni.

Ansia, a febbraio, quella infida del futuro miope di una generazione precaria. E poi tanta, tanta amarezza da gestire: febbraio è mimose e una corazza di ghisa addosso con cui affrontare il mondo che si fa leggero, le giornate che si allungano. Uno stridore, è vero: ma è talmente la pesantezza che lo stridore non c’è tempo per ascoltarlo, davanti c’è solo la contemplazione di tutto quello che non va. Lentamente, cercare di fare lo stesso, nonostante, anche se.

Ma non è solo questo, febbraio. È un mese corto, bisesto per lo più a questo giro, e pieno, densissimo di lavoro. Che sembrerebbe pazzesco, la farsa di quella che non è mai contenta: ti lamenti del lavoro e dici che ne hai troppo. È più complicato. Ma dicevo: tanto lavoro, tante cose nuove, tanta linfa. Febbraio inizia in modalità comica, in un autobus Imperia-San Lorenzo al mare con gli Eugenio in via di gioia e i loro fan, si cantano canzoni, si discorre con le signore a bordo, si fanno video e soprattutto si sbarca e si va a infocare la bici, perché a Sanremo, al Festival, se sei con gli Eugenio ci arrivi in bici.

E sì, il Festival, c’era lui nella prima decade di questo mese stranissimo appena trascorso. Così dopo la biciclettata, una sera strana tra alberi potati, luna e pan fritto e una foto stile Murnau, dopo un tour de force assurdo che ho voluto rimuovere per evitare di aggiungere benzina alla delusione, dopo una bellissima conferenza a Imperia sullo stato delle foreste e degli alberi, eccoci nella città dei fiori. Solita sala stampa Ariston, soliti visi, solite routine che stavano arruginendosi dopo un anno di stop e invece sono riaffiorate, e poi i fiori, la mimosa in fiore ovunque, il solito tran tran dell’autobus giornaliero, le letture, la lotta per il posto a sede.

La sala stampa Ariston regala gioie che gli addetti ai lavori, e solo loro, già conoscono e ricercano quasi ossessivamente ogni anno. Momenti di show, bagarre giornalistiche, operatori Rai al lavoro – e quest’anno ne ho conosciuto uno con cui siparietti e dialoghi assurdi al sapor di accento romano sono andati avanti tutti i giorni di Festival -, panini a orari improbabili, caffè, uh, quanti caffè.

Insomma, una generale festa folle tra un pass Rai da indossare al collo, ascensori per far su e giù, le luminarie colorate su via Matteotti a recitare il capolavoro di Modugno, Nel blu dipinto di blu, e le prove dentro l’Ariston che ogni volta lo vedi in tv e sembra enorme, ci entri dal vivo ed è un buco, ma l’audio dal vivo è tutta un’altra cosa, l’orchestra, i suoi, e la Vanoni scortata per salire le scale (“Preparate la signora Vanoni per cortesia” è la frase must del tecnico di palco captata nelle mie tre orette sprofondata nel buio della platea). E poi le serate del Festival da casa, in second screen per leggere commenti e pareri, il sonno pazzesco, le dirette infinite la notte, le sveglie tra spremuta, mimosa e maglioncino perché sì, faceva ancora freddo.

Per non dire dei gadget, che fanno impazzire i giornalisti, sottoscritta inclusa, che in qualche giorno dentro la sala stampa dell’Ariston ha recuperato un paio di improbabili occhiali da sole a forma di stella, un tamburo bontempi firmato Diodato (Fai rumore!), un vinile di Gabbani. E poi, ma che ve lo dico a fare? Bugo e Morgan, il cinema del Festival 2020, l’episodio sul palco, mentre io già dormivo, la conferenza stampa dei discografici con Bugo, Morgan che improvvisa lui una conferenza e manda a quel paese la sala stampa. Io che, sghignazzando, incrocio le braccia tirate su dalla tastiera e mi godo lo spettacolo. Perché è proprio per quello che si segue Sanremo: per godersi lo spettacolo, gustarsi le canzoni. Per inciso, tra le preferite e riascoltate mille volte, Andromeda di Elodie e Tikibombon di Levante.

Così tra pomeriggi assolati che sembra già primavera e fa strano, la giacca che sembra di troppo, il lavoro che è una grande ruota che sta per schiacciare, si svolge febbraio, lo scuro della finestra girato a coprire il fascio di luce sul computer. Tasti battuti senza sosta, finestre di scrittura continuamente aperte, salvate, chiuse. Uno scrivere senza fine, uno smettere di leggere come un motore scarico. Febbraio, che era iniziato gagliardo in quanto a letture di narrativa, ha subito un arresto deciso a febbraio. La stanchezza, la vista provata, la mancanza del bisogno.

Nella bolla di malumore personale, l’esigenza che cresceva era quella dello studio. È tornata la saggistica. La voglia di approfondire, di studiare, di sapere, di cibarsi, di aggiornarsi. La necessità profonda di tutto questo, una specie di vertigine, l’ansia di non farcela, le liste che si allungano: devo leggere questo, poi questo, no aspetta anche questo. Tra arretrati di lavoro, letture lasciate sparse in giro che sono diventate mano a mano libri con matite infilate in mezzo accumulati sui tavoli, giornali da recuperare e da riscoprire, è arrivata la metà del mese. Tempo perso? Chi lo sa.

Nel dubbio, una mattina ci si sveglia alle 5 e mentre il treno va verso Milano si battono veloci i tasti e si scrive l’ennesimo articolo: ore 7 del mattino. La metro di Milano, l’università, il caffè della macchinetta. E nella stranezza della giornata una telefonata che scardina e intacca ancora di più il rimuginare. A Milano c’è il sole, il panino al parco, la stanchezza che assale, il cimitero monumentale, gli amici ritrovati nella bolla di sonno, ed è bello così, anche se i minuti di ritardo del treno sono tantissimi, perché a Lodi è deragliato un frecciarossa, in questo mese, e ha pure causato dei morti.

Ma via, il malumore si supera: basta portare i giornalisti in gita scolastica, a spasso per Torino su un bus due piani, scoprendo il cinema, i suoi personaggi sparsi nel tessuto urbano della città, la chioma al vento e i selfie divertiti mentre il telefono esplode di materiale che la memoria non tiene più. Non tiene più niente: questa è la conclusione di un weekend di una tristezza abissale in cui generi di conforto e pensieri statiti fanno da contraltare a una caduta libera di cui ossessivamente ci si domanda il perché. Non lo si trova: non esiste forse, è stancante persino spaccare capelli in quattro, interrogarsi tra un magone e un’impennata di rabbia, impastare una pizza che è triste mangiare da soli davanti a una birra e a Mario Tozzi in tv il sabato sera. Ehi, però è anche interessante Mario Tozzi e il suo programma.

Alti e bassi: è una vita che è così. Dunque se a febbraio 2020 la tendenza porta verso il basso, passa anche qualche onda positiva. C’è per esempio la prima conferenza stampa del Salone del libro 2020, un po’ di ossigeno, nel solito tran tran di quelli che tanto sono sempre loro, e si sa che va così, e allora torna però la rabbia, no, sediamola qui. E poi le mostre, come quella che spazia da Capa a Ghirri a Camera, che allarga il respiro, fa sognare un po’, e meno male.

Aria leggera, ecco di cosa c’è bisogno: sognare di tornare al mare su un maggiolone giallo che spunta fuori in una via Po frizzante di mattina, le bancarelle dei libri e un semaforo rosso. Aria leggera che porta fin sui tetti della città, e sembra quasi di volare. Volare fino al tuo scoglio del cuore, mai come in questo mese al centro di occhi e attenzioni: proviamo a leggere, a rilassarci? E no, nemmeno sta volta riesce: un altro weekend disastroso, da ricacciare giù in profondo, per non restarci male. Grazie a Mario Tozzi, anche questa volta, che parla di mappe e riaccende l’entusiasmo per lo studio, la voglia mai così acuta, da anni, di rimettersi a studiare, allargare la testa, i pensieri, dimenticare il resto.

Finché è venerdì 21 febbraio, e in Italia scoppia l’emergenza del coronavirus, e nessuno ci capisce più niente. Inizia un periodo, che prosegue ancora oggi, mentre scrivo questo post recuperando i frammenti di febbraio, e però è già marzo, un periodo strano, inedito e inaudito. Un periodo in cui mi devo fermare a casa, lì per lì con curiosità, lì per lì con l’idea di riuscire a rallentare, recuperare gli arretrati, ah, finalmente, aspetta, mi rimetto in carreggiata, posso persino pensare di porre le basi per piccoli scacchi e cambiamenti della mia vita.

Invece inizia la trincea, quella delle notizie. Ansa, Agi, fonti da verificare, regione, istituzioni, dirette tv, comunicati stampa, cose che saltano, altre che tornano, notizie da inventare perché tutto chiude, cose da far funzionare mentre si inizia a capire che niente funzionerà più come prima. Sarà l’anno bisesto? Non lo capisco. Intanto ho delle domande a cui cercare di dare una risposta, e la cerco studiando, ripensando, ripercorrendo. Le cerco facendo il mio lavoro, ci provo, tutti i giorni, in mezzo all’allarme, rigore, pensieri, problemi, soluzioni, possibilità. Le storie invece di diminuire aumentano a dismisura, ne trovo tante, costruisco legami, parlo con la gente. Tutto al telefono, tutto da lontano. Ma si è allontanata quella nuvola scura di febbraio, si è diradata un pochino. Non abbandona la rabbia, l’amarezza resta, certo, ma c’è la consapevolezza del mio lavoro, della sua importanza, delle sue dinamiche. Siamo in emergenza, devo dare informazioni, devo cercare, e questa è l’essenza del mio lavoro, e mi piace, e in fondo penso che è giusto così e non vorrei fare atro.

Quindi anche se non funziona tutto bene, se è il terzo sabato consecutivo che guardo Mario Tozzi in tv, e sempre bellissimo e interessante è il suo programma, se non riesco a leggere e ho almeno tre libri piantati con le matite in mezzo, se la mia vita sociale è pressoché inesistente e perdo le dita e la vista su un computer tutti i giorni, forse qualcosa funziona  tra i pensieri. Si attivano connessioni, respirano discorsi, si agitano idee. Al mese di marzo spetta costruire un piano di fuga calibrato per tutte queste idee che ormai danzano tra un articolo e l’altro, tra una parola e l’altra delle migliaia – migliaia, per davvero – che le mie dita hanno scritto sui tasti e non solo in questo strano, stranissimo mese di febbraio bisesto 2020.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!