Giotto, Palladio, Galileo, Tiziano, Mantegna. E già basterebbe. Ma poi ci sono ancora affreschi, architetture, collezioni, giardini, musei, storia, religione. E non è finita: arrivano le piazze, i portici, le basiliche, le abbazie, i teatri e i caffè storici. Fare una vacanza di quattro giorni a Padova e Vicenza è tutto questo, e naturalmente anche un di più fatto di amicizia, spritz, ombrelli colorati  e risate familiari.

Appena rientrati da questa giostra di sapor veneto, mentre ci si crogiola in quella miscela indefinibile di contentezza per aver fatto ritorno al proprio nido e malinconia per aver perso la spensieratezza di abitudini nuove e libere, sto mettendo ordine nella montagna di fogli e foglietti che ho recuperato in questi giorni.

Prato della Valle e Santa Giustina

Ci sono biglietti di ingresso, scontrini, santini, ma anche cartoline, depliant, mappe e brochure. Ognuna racconta una storia legata a un monumento, a un museo, a una scoperta. Tutte insieme, ora, mi danno un’idea concreta di quanta meraviglia abbia potuto ammirare in questi quattro giorni. Non importa più tanto, così, la pioggia che ha raffreddato la vacanza, regalando alle foto del panorama tra Prato della Valle (la stupenda e immensa piazza di Padova) e la basilica di Santa Giustina una patina grigio-novembre e impedendoci di sfoggiare magliette estive. Quel che conta, a giudicare dai ricordi, dalle foto e dal senso di appagamento, è il numero altissimo di cose nuove scoperte e imparate.

Chi lo avrebbe mai detto, per quelli che come me conoscono poco il nord-est, che a Padova ci fosse il più antico orto botanico universitario del mondo, l’”hortus cintus”, nato per agevolare lo studio delle piante medicinali? Io non lo avrei nemmeno immaginato, e così in quel meraviglioso polmone verde costituito dall’orto, patrimonio Unesco (tra le motivazioni di tale nomina, anche il fatto che l’orto abbia contribuito al progresso scientifico di numerose discipline), ci ho passato una mattinata intera, affascinata da piante di ogni tipo, rare, medicinali, velenose, profumate, bizzarre, esotiche. Alberi immensi, profumati del sapore verde che la pioggia della notte precedente aveva evocato, petali ancora cosparsi di suggestive goccioline d’acqua. E la perfezione geometrica di un orto cinquecentesco suddiviso in aiuole ordinate, che ricostruiscono ambienti e tengono insieme collezioni tematiche di piante. Alcune chicche sono state il platano orientale del 1680, o il Ginko Biloba del 1750, la magnolia del 1786 (quante magnolie antiche ci sono a Padova!), la palma di Gohete, che se potesse parlare racconterebbe cose che vanno dal 1585 a oggi, e poi il cedro dell’Himalaya, primo della specie arrivato in Italia nel 1828.

La Palma del Viaggiatore nel Giardino della Biodiversità

Tra fragranze di pitosforo in fiore, rose e piante grasse (che in realtà si chiamano succulente) di ogni tipo, per non parlare della delicatezza delle ninfee in fiore nelle vasche, la visita all’orto ci ha condotto a una struttura spettacolare che vi si affianca e che permette approfondimenti didattici importantissimi. Si tratta del Giardino della Biodiversità, che leggo essere nato nel 2014. È un insieme di serre super moderne ed ecosostenibili, progettate per sfruttare energia rinnovabile, acqua e sole. All’interno viene proposto un viaggio incantato nel pianeta, attraverso le quattro fasce climatiche (che in termini più tecnici sarebbero i “biomi”): foresta pluviale, foresta tropicale, area temperata e fascia arida. Ognuna è delimitata da porte e alti vetri, all’interno viene riprodotto il clima specifico (e sì, nella foresta tropicale e pluviale fa davvero un caldo-umido pazzesco!) ed è così che vi sorgono le piante tipiche di quelle zone, nella loro spettacolarità esotica. Palme, arbusti, alberi da frutto, foglie enormi, forme strane, tronchi insoliti: è un paradiso per lo sguardo, e per la conoscenza. Parallelamente allo spettacolo vegetale, si snoda il percorso didattico, fatto anche di nozioni faunistiche sulle specie in estinzione e di storie umane, come quella che riguarda lo sviluppo della coltivazione di cereali, oppure gli svariati impieghi del legno nelle attività umane, e ancora l’uso di sostanze psicotrope di origine vegetale. Alla fine della visita si sente tutto il doppio peso della meraviglia per il patrimonio di biodiversità che il nostro pianeta racchiude, e della preoccupazione per i pericoli tutti umani che minacciano lo scrigno incantevole che ci ospita, e di cui abbiamo incessante bisogno.

Ma Padova, si sa, è anche cose più note, come il suo santo per antonomasia, Sant’Antonio, le cui spoglie sono presenti nell’enorme e bellissima abbazia che svetta vicino a Prato della Valle. Sulla “pietra” di Sant’Antonio in Basilica passano le mani, secondo una tradizione che pare si snodi dal Duecento in avanti, i pellegrini, che poi fanno visita alle reliquie: lingua, apparato fonatorio, mento. Un po’ macabro, è vero, ma è tutta simbologia cristiana. A proposito della monumentale basilica, sono tante le chiese di Padova che ci hanno meravigliato per dimensioni: Sant’Antonio, Santa Giustina, il Duomo, la chiesa degli Eremitani, tutti edifici enormi, dai soffitti e dall’estensione smisurati. Ma ognuna, naturalmente, ha le sue storie, i suoi capolavori artistici e le sue peculiarità. Sant’Antonio, per esempio, risiede sotto l’egida del Vaticano, accoglie pellegrini da tutto il mondo e non è solo un’immensa basilica: racchiude due chiostri, un oratorio e una Scuola del Santo. Proprio qui c’è un ciclo di affreschi che include tre opere del giovanissimo Tiziano: forse lo sanno in pochi, noi abbiamo avuto il privilegio raro di visitare la stanza in completa solitudine, un’occasione ghiotta.

A poca distanza da Sant’Antonio c’è la basilica benedettina di Santa Giustina che, un po’ in sordina, con le sue enormi pareti apparentemente povere di affreschi, custodisce niente meno che le presunte spoglie di San Luca evangelista. I monaci fanno una comunicazione molto accurata del patrimonio artistico della loro chiesa, con flyer e spiegazioni agili. Mi direte: è facile, perché a Santa Giustina ci sono non solo San Luca, ma anche un affresco del Mantegna, e una cripta paleocristiana che contiene il sepolcro di San Prosdocimo, primo vescovo della città. Insomma: tesori inaspettati. Ma di fascino garantito.

Il Battistero del Duomo

Anche il Duomo sembrava una chiesa come un’altra. E invece, oltre alle inconsuete dimensioni, ha di fianco un battistero stupefacente, interamente affrescato dal fiorentino Duccio De’ Menabuoi. Ci si può sedere sui lati e, testa all’insù, perdersi nella geometria del Cristo Pantocratore di sapore bizantino circondato da teste di santi che riempie la cupola, o nei cicli di affreschi che, come strisce a fumetto, illustrano stralci di testi sacri.

Reperti di Giorgio Perlasca al Museo del Risorgimento

Sorprese analoghe le abbiamo trovate nella chiesa degli Eremitani, che sorge nell’area archeologica in cui si trova anche la famosa cappella degli Scrovegni.  Come poi appreso più approfonditamente anche grazie ad alcuni reperti e proclami partigiani che si trovano nel Museo del Risorgimento al piano nobile del Caffè Pedrocchi (dove, tra divise militari che vanno dai Mille alla Seconda Guerra Mondiale, c’è anche una commuovente testimonianza di Giorgio Perlasca e dalla sua memorabile impresa di salvataggio), la chiesa fu colpita dalle bombe angloamericane nel 1944. Uno sfregio che è vivo ancora oggi, perché alla crudeltà delle bombe si aggiunge la distruzione irrimediabile degli affreschi del Mantegna che proprio negli absidi di questa chiesa si conservavano da secoli. Scoprire i tesori di Padova è stato anche questo: immergersi nella storia, toccare con mano l’evoluzione del patrimonio, i passaggi degli artisti in città, l’influenza della piccola e grande storia nel corso dei secoli.

la Cappella degli Scrovegni

Alla tristezza per capolavori del Mantegna persi (e, mi preme sottolinearlo, quello della perdita di patrimonio artistico è un tema più vivo che mai: vedasi attacchi terroristici ed eventi come i terremoti i centro Italia), si affianca, però, la pura meraviglia per capolavori che, grazie a un’attenta conservazione, sono ancora visibili. Per fortuna nostra e di tutti quanti abbiano l’occasione di andare a Padova e vedere la Cappella degli Scrovegni, che conserva un ciclo spettacolare di affreschi di Giotto. Si va indietrissimo nel tempo, alle radici dell’arte rinascimentale che ha fruttato le meraviglie fiorentine e romane più note al pubblico di massa.

Particolare del Giudizio Universale di Giotto con rappresentato il committente Scrovegni

Nel silenzio di una piccola cappella di Padova, invece, resta una muratura interamente ricoperta da splendidi affreschi, con un soffitto a cielo stellato che riempie gli occhi di stupore colorato, e una controfacciata che rappresenta un Giudizio Universale a cui tutti riportiamo l’immaginario, e sappiamo che sarà un immaginario dantesco. Ma attenzione: non è Dante a influenzare Giotto, bensì il contrario! Questo dice la grandezza e unicità della visione di Giotto, e la potenza di iconografie che rimbalzando dalla pittura alla letteratura hanno influenzato tutti i secoli successivi, arrivando a noi, che abbiamo la sfacciata fortuna di vedere tutto questo.

A venti minuti di treno da Padova c’è Vicenza, una cittadina piccola, che profuma di provincia (sarà perché ci sono arrivata una semi-piovosa domenica pomeriggio), ma che racchiude nel suo bel centro storico tante, tantissime opere firmate dal Palladio. Una passeggiata in centro, dalla stazione al limite contrassegnato dalla piazza su cui si affacciano due capolavori palladiani, Palazzo Chiericati e il Teatro Olimpico, vale una gita a Vicenza, parola mia. Palazzo Chiericati svetta col suo bianco marmo cinquecentesco, è patrimonio Unesco e raccoglie oggi una collezione civica di prestigio che ne occupa tre piani. Ma la vera perla, che volevo vedere da anni e che ha fatto da gancio per portarmi a Vicenza, è il Teatro del Palladio, il Teatro Olimpico. Lo avete presente tutti, perché è l’esempio massimo di recupero dell’arte classica tipico dell’Illuminismo cinquecentesco italiano. Nel suo spazio coperto riproduce le fattezze di un teatro greco-classico, con la cavea – le gradinate che fungono da sedili – e la scena. Ed è questa che desta lo stupore massimo non appena entrati (vi assicuro che la meraviglia è stata grande superando la soglia di ingresso in teatro), perché ricostruisce le sette strade di Tebe (la rappresentazione inaugurale del teatro, nei primi del Seicento, fu l’Edipo Re) con un gioco prospettico vertiginoso e all’apparenza irreale.

Il Teatro Olimpico del Palladio

La grande scena è costruita su tre ordini e ornata con statue di taglio classico, è dalle tre arcate che si dipartono alcune delle strade, che se all’occhio sembrano lunghe, a sfondare il fondale, sono in realtà costruite su percorsi in salita, con il cielo che si abbassa e lo spazio che si restringe a cono. Un’illusione perfetta davanti a cui restare abbagliati di incanto. Difficile uscire da questo luogo magico. Ma il centro di Vicenza riserva anche altre cose belle, per esempio la grande Basilica Palladiana, edificio adibito oggi a sala comunale, che vanta una terrazza panoramica con bar sul tetto e che al piano terra mantiene, come da tradizione delle basiliche di quell’epoca, negozi e botteghe.

Parlo di tradizione delle basiliche perché anche Padova, naturalmente, ha la sua basilica. Non è stato del tutto immediato capire di che tipo di edificio si trattasse: se dico basilica, pensiamo tutti a una chiesa. Invece no, le basiliche palladiane (quella di Padova è del 1541 firmata dall’architetto Andrea Moroni) sono edifici civili, a carattere politico ed economico, basti pensare che quella di Padova si chiama Palazzo della Ragione, e fu tribunale e sala di riunioni fin dal Medioevo, mentre alla base, sotto i porticati, ospitava e ospita tutt’oggi botteghe di mercanti. Oggi la sua splendida sala fa da sfondo a eventi importanti come il premio Galileo per la divulgazione scientifica. La chicca della basilica di Padova è infatti il Salone interno, uno degli ambienti coperti più grandi di Italia: è enorme, sterminato. Con i suoi 80 metri di lunghezza e 40 di altezza ospita cicli di affreschi che in origine, prima di essere distrutti da un incendio, vedevano la mano di Giotto. Oggi vi si trovano un enorme cavallo in legno realizzato nel Quattrocento per una giostra, la “pietra del vituperio” originale del 1231, castigo per i debitori insolventi, e un Pendolo di Foucault, esperimento che segnala il legame vivo della città con la divulgazione scientifica.

Non potrebbe essere diverso: a Padova Galileo passò ben 18 anni, insegnando all’università, una delle più antiche di Italia, le cui origini affondano nel pieno Medioevo, intorno al 1200. È emozionante pensare a quanti secoli di storia raccolga questa istituzione, ma anche a quanti personaggi, scienziati e letterati vi siano passati, lasciando non solo segni concreti della propria presenza (i blasoni e stemmi dell’università, oltre che ai dipinti, sono tantissimi) ma legando a Padova importanti scoperte scientifiche. La visita del Palazzo del Bo’, il rettorato dell’università di Padova, conduce attraverso questa storia e queste scoperte. Si parte dall’aula magna, sontuosissima, per arrivare alla quale si attraversa un cortile letteralmente tempestato di stemmi degli antichi rettori. Antecedente all’aula magna c’è la sala dei Quaranta, dove i quaranta sono personaggi illustri provenienti dall’estero e affrescati sulle pareti. Sono personaggi che, all’epoca “solo” studenti dell’università di Padova, si sono contraddistinti per ricerche e scoperte. Nella stessa sala c’è una cosa fantastica: la cattedra di legno, quella originale, dalla quale Galileo faceva lezione. Emozionantissimo! Come del resto è il teatro anatomico, il primo in assoluto, una struttura geniale, che per cerchi concentrici via via sempre più alti formava un’aula particolarissima, a balconate, dalle quali i tantissimi studenti potevano seguire le lezioni di anatomia umana. Al fondo dell’ideale cono prospettico che si formava in questo ambiente, la tavola col cadavere di turno, talvolta rubato dal cimitero.

Insomma, in quattro giorni, innaffiando le visioni con spritz e caffè alla menta dello storico Caffè Pedrocchi, credo di aver visto di tutto. Un di tutto che però ha un filo comune, quello della meraviglia per frammenti di arte, architettura, storia e scienza curati e conservati, ancora visibili oggi in mezzo ad altri tasselli di un tessuto urbano che continua a cambiare e crescere, a migliorarsi, a proporre percorsi. Nella ricchezza estrema di questo territorio d’Italia e di queste due città, Padova e Vicenza, si nascondono senza troppo sfarzo gridato dei capolavori che tutti dovrebbero avere la fortuna di conoscere. Sono tessere del grande puzzle della meraviglia artistico-scientifica italiana, così radicati nel patrimonio di quei luoghi da fare tuttora parte del profilo della città: custodite, integrate, valorizzate, libere non solo di essere godute dagli occhi di tutti, ma di essere vissute. Nell’orto botanico vivono le piante e fioriscono iniziative didattiche all’avanguardia, sotto le basiliche le attività commerciali propongono le eccellenze gastronomiche del territorio e non solo, l’università ha un cuore pulsante più vivo che mai, fatto di studenti in arrivo da tutta Italia e anche da fuori, e nel Teatro Olimpico, tutt’oggi, si svolgono rappresentazioni per fortunate compagnie, registi e spettatori. Ecco, forse è questa la meraviglia più grande che ho trovato a Padova e Vicenza: un tesoro immenso, sfaccettato, che abbraccia tutte le gradazioni del sapere e della curiosità umana, e che racconta la sua storia in mezzo a città che da secoli continuano a vivere e produrre bellezza.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!