Estate 2008, ho 22 anni e prima di qualche giornata in spiaggia all’Isola d’Elba ho deciso di passare un paio di giorno in giro in Toscana. Con me ci sono l’amica di sempre e una generosa dose di leggerezza universitaria. È anche l’estate in cui ho finito gli esami e dovrei scrivere la tesi, che è dedicata al rapporto tra letteratura angloamericana e Bebop Jazz. Ecco perché la mattina prima di prendere il treno per Piombino, e da lì il traghetto per l’Isola, punto i piedi in un negozio di musica del centro di Pisa e faccio la pazzia. Ho appena visto il vinile di Kind Of Blue di Miles Davis. Quello che tante volte ho ascoltato nei dischi di papà, o su Youtube. Quello dove c’è So What, che già so a memoria.

Lo so, lo so: è strano, insolito per lo meno, che una ragazza di 22 anni impazzisca per Miles Davis. Ma è la stessa ragazza che da lì a tre mesi finirà la sua tesi leggendo di tutto su Charlie Bird Parker e Dizzie Gillespie, che va ai concerti jazz, che ha in casa un contrabbasso suonato dal papà e che, tanti anni dopo aver scattato una foto in maglietta e occhiali da sole a Portoferraio abbracciando un sacchetto che contiene un enorme (e scomodissima) custodia quadrata di vinile condotta a spasso per le strade toscane, i treni e i traghetti, si emoziona una sera di ottobre quando al Circolo dei Lettori di Torino si trova seduta in prima fila a un metro dal pianoforte dai cui tasti esce So What, ideale colonna sonora del reading di Gianrico Carofiglio, che quel brano di Miles lo ha infilato in un romanzo.

Grazie a Einaudi ho avuto la straordinaria fortuna di leggere Le tre del mattino, il romanzo di cui sopra, e di incontrare l’autore a un aperitivo informale insieme ad altri blogger, chiacchierando e domandando cose su una storia che, particolarissima, è ancora vivida in testa a qualche mese di distanza, pronta a riattivarsi ogni volta in cui ho l’occasione di ascoltare So What, e subito, cinematograficamente, chiara nell’immaginazione, tra le strade di Marsiglia, l’atmosfera al tempo stesso esotica e di pericolo, la notte, il buio romantico e maudite di un jazz club. Tutto questo, del resto, è già condensato in copertina: la notte, il blue, cugino stretto di un certo Kind of blue, mi verrebbe da pensare, strade misteriose e riflessi di acqua di porto, insegne al neon che dicono di seminterrati dove si svolgono i rituali delle jam session.

Qualche coordinata per entrare nel romanzo di Carofiglio ve l’ho data, ma ve ne mancano altre due fondamentali, che rispondono alle parole chiavi di epilessia e matematica. Come si incastra tutto questo? Antonio è un bambino che scopre di soffrire di epilessia, il male innominato, e per sua sfortuna, per di più, immotivato. Siamo negli anni Ottanta del Novecento, la cura trovata dai medici è a base di psicofarmaci e consigli piuttosto surreali come quello di non bere bibite gassate. Tagliato fuori dal mondo condiviso da tutti i suoi amici e coetanei, rallentato dai farmaci, Antonio finisce per isolarsi. I genitori, divorziati, insegnante di lettere la madre, con cui vive, e docente universitario di matematica il padre, che non vede quasi mai, si rendono conto della necessità di intervenire, ed è così che entra in gioco Marsiglia. È lì infatti che lavora uno dei più quotati dottori esperti di epilessia, ed è lì che il ragazzino viene condotto per una visita grazie a cui torna a condizioni di vita normali, riappropriandosi della sua socialità.

Si tratta di una storia vera, ci ha raccontato Carofiglio, narratagli da un amico e così insolita e potente da suscitargli la voglia di scriverne. La vicenda di Antonio infatti non finisce qui. Qualche anno dopo quella prima visita torna a Marsiglia per un controllo accompagnato solo dal padre, con cui non ha quasi rapporto, non parla né è solito passare del tempo. Il responso del dottore questa volta arriverà solo dopo una curiosa prova di forza, oggi vietata dalla deontologia medica ma all’epoca ancora permessa. Antonio sarà infatti costretto a stare sveglio per due notti di fila, tornando poi il terzo giorno in ospedale per i controlli definitivi. Eccola: la storia. Quarantotto ore di improvvisa vacanza, a Marsiglia, solo con un padre che quasi non conosce, pronto a cavalcare episodi, incontri, avventure, dialoghi e confessioni che, passate le due notti insonni, non lo porteranno solo via dal mondo dell’epilessia e dei medici, ma ne faranno una persona nuova.

Ecco perché leggendo questo romanzo ci catapultiamo dentro a una storia che tutti riconosciamo come percorso di formazione: c’è l’adolescenza, c’è il passaggio di una serie di prove, il superamento di confini che allargano l’orizzonte, e cambieranno la visione da quel momento in avanti. Ho rivolto proprio questa domanda, in realtà trasformata poi in riflessione, a Carofiglio (trovate un mio articolo sull’aperitivo insieme all’autore qui): è una storia di confini, non solo per quanto riguarda la figura di Antonio. C’è il confine più umano, quello del rapporto col padre, che da muto diventa loquace, e dentro di sé racchiude il superamento dei tanti tabù mai nominati in famiglia, dalla separazione dei genitori, al rapporto del padre con la sessualità. C’è il confine temporale: la notte, territorio inesplorato in cui dover stare desti, landa buia da esplorare e lungo la quale incontrare sotterranei dove si suona del jazz, o stanze illuminate dove – simbolicamente – diventare adulti, il giorno che l’ha preceduta, quello che seguirà. C’è il confine geografico: siamo in Francia, una città straniera due volte, sia perché extra Italia, sia perché storicamente città di porto, di immigrazione africana e mediorientale. Un po’ come a Genova, a Marsiglia i bassifondi sono scuri, ambigui e popolati dalle creature della notte e della criminalità, nel cui territorio transitano i protagonisti, sconfinando rispetto a una direzione tacita e tracciata.

Quello che accade ad Antonio e al padre nei due giorni di veglia a Marsiglia, del resto, è tutto fuori dall’ordinario. Uno spiraglio inatteso, una possibilità impensata in cui decidere, per forza di cose, di tuffarsi, accettando l’inaspettata libertà offerta dall’occasione e approfittando dei suoi frutti. Ecco allora improvvisi momenti di condivisione e reciproca scoperta di un padre e di un figlio. Non un padre e figlio qualunque: Antonio riflessivo, un po’ introverso e abituato a sentire sulla propria persona la diversità (tant’è vero che non legge Il giovane Holden, romanzo mainstream, bensì Franny e Zoe, opera molto meno conosciuta di Salinger), il padre, si scoprirà, matematico-jazzista dalla voglia di vivere una vacanza dal proprio ruolo di professore.

Tra il rigore della matematica –che, scoprirete leggendo, non è affatto una materia scelta a caso e non avrà un ruolo marginale, anzi – e l’improvvisazione del jazz, il padre emerge come figura chiave, sospesa tra irrisolto, taciuto e sogno. Una figura, io credo, bellissima: ricca, piena, un po’ ombreggiata e soprattutto complessa. Cornice di una complessità che si svela per Antonio, che per la prima volta si lascia andare e conosce, scoprendolo, il padre e di conseguenza stappa l’ampolla nascosta delle proprie capacità e talenti (e il talento, ci ha spiegato l’autore, è una delle chiavi di lettura di questa storia) è l’atmosfera onirica di una delle scene più belle in assoluto in tutto il romanzo. So What di Miles Davis ne è la colonna sonora, l’immaginario condiviso di un jazz club di New York ne è la scenografia, ma l’atmosfera, quella palpabile che si va costruendo tra le battute di dialogo e gli occhi di Antonio, di sicuro aiutata dall’assenza di sonno e dal galvanizzante sapore della novità e dello sconfinamento, è tutto lavoro di scrittura. Non vi dico altro: merita di essere gustata, assaporata.

A distanza di qualche tempo, dicevo prima, questo romanzo e le sue immagini mentali continuano a girarmi in testa: non dimenticherò per esempio l’uscita dal jazz club e il girovagare nottambulo per vie sconosciute della città, fino all’approdo in un bar di dubbia fama dove tuttavia fare l’alba aspettando brioches calde. Lo sentite anche voi il profumo? E lo sentite, invece, l’odore di salsedine e sole sulla pelle di un pomeriggio nel paradiso naturalistico delle Calanques, le falesie di roccia che distano poche miglia marine dal porto di Marsiglia? Lì i due protagonisti vanno in gita a godersi la vacanza improvvisata, lì sono stata anni fa ritrovando poi, all’incontro con Carofiglio, quello stesso azzurro agitato dai riflessi dei raggi solari nelle foto che lo scrittore conservava sullo smartphone e ci faceva scorrere sotto il naso.

Se non fosse ambientato a Marsiglia, in effetti, questo romanzo sarebbe tutta un’altra cosa: la città cosmopolita affacciata sul Mediterraneo, che non dorme mai e sa essere al contempo luce e notte, è perfetta. «Sembra di percepire a ogni pagina – a ogni angolo – un senso di tensione, come se dovesse succedere qualcosa» aveva interloquito all’incontro qualcuno dei blogger. Ed è vero, è così, ha confermato Carofiglio: la tensione c’è, come un cavo elettrico che attraversa la storia intera, dando energia e vigore a due giorni che sanciranno un passaggio, che apriranno un varco. È un romanzo che non lascia indifferenti: l’ambientazione, lo snodo della storia, con l’epilessia e la stranissima terapia, un rapporto padre-figlio ambientato negli anni Ottanta de Il nome della rosa e del walkman con cassetta, gioiello per un adolescente dell’epoca, il jazz e la matematica, i confini, e il loro scavalcamento. Dalla notte insonne dove tutto può accadere, diventando lecito, a una nuova alba in cui risvegliarsi ritrovando una parte sepolta e mai compresa di sé.

«Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino», diceva Francis Scott Fitzgerald, tra gli scrittori icona dell’età del jazz, i Roaring Twenties che lo portarono peraltro in Costa Azzurra, quella che descrive, Marsiglia inclusa, all’inizio di Tenera è la notte. Ecco svelato il titolo, ecco svelata la magia della notte a Marsiglia, e insieme il fascino magnetico e tenerissimo al tempo stesso di Le tre del mattino.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!