Se seguite questo blog e la sua pagina Facebook, lo avrete ormai capito: quest’estate ho fatto una bellissima vacanza siciliana e, se già ero partita con aspettative altissime, letture e immaginari a cui trovare risposta concreta, da quando sono tornata ho sviluppato quello che un’amica ha definito Mal di Sicilia, a cui non ho saputo trovare altra risposta se non continuare a leggere o rileggere libri e romanzi che quella Sicilia che così tanto mi manca la raccontano, nella sua meraviglia e nelle sue contraddizioni, nella sua irresistibile ironia e nel suo mare.

Una città più di ogni altra simile a una lampada delle Mille e una notte: basta sfregarne le pietre perché un qualche genio sfugga, un genio obliquo e mercante, capace di suscitare desideri invece che esaudirli. Un geografo arabo scrisse di Palermo che “fa girare il cervello a chi la guarda”. Lo annoda su se stesso, fino a slogarlo come un’articolazione. Tutto porto. Tutto abbraccia. E tutto stritola.

Prima di partire per Palermo avevo ripreso in mano un libro che ho trovato folgorante e che per questo cito e consiglio spesso, Ciò che inferno non è, del palermitano Alessandro D’Avenia (tutte le citazioni che troverete virgolettate in questo post sono tratte da lì e hanno costellato i miei giri per Palermo). Ecco, possiamo dire che io Palermo l’ho scoperta lì, tra le pagine di quel libro che proprio con una vista dall’alto della città si apre, uno scenario che da urbano diventa paesaggio interiore e che per questo era così carico di emotività e bellezza da avermi colpita. Non solo: in mezzo alle vicende del libro, che è ambientato a Palermo, tra il centro e il quartiere periferico di Brancaccio dove operava Padre Pino Puglisi, ucciso dalla mafia, D’Avenia infila scene e scorci ancora una volta folgoranti, dove prendono vita con forza attimi e fotografie della città. Ci ho intuito e assaporato il giallo oro bizantino e gli azzurri che nessun aggettivo contiene, e poi una volta a Palermo li ho davvero ritrovati. Ci ho incontrato le viuzze del centro, i bombardamenti della guerra ancora ben presenti nei palazzi diroccati, e la sconvolgente bellezza nobile della cattedrale e del Palazzo dei Normanni. Ed ero stata con la fantasia a Mondello tra azzurro, cabine, ombrelloni e divertimento, che sono poi le coordinate che a Mondello ho davvero ritrovato.

Ecco, non esito a dire che grazie a questo libro ho costruito una visione di Palermo, che trovo tutt’ora bellissima e folgorante, e che sono contenta faccia parte del mio bagaglio: lo rende più ricco, lo incrina di quello spasimo di cui l’autore ha tanto parlato, e che mi ha colpita così tanto da volere a tutti costi vedere la chiesa dello Spasimo. Il motivo è qui:

Il cuore impara a volere ciò che è oltremare per chi è nato qui. Si lancia in estasi continue, esce fuori di sé. Questo desiderio infinito che costringe il cuore a spezzarsi, se necessario, i più lo chiamano vuoto e lo risolvono con l’amore. Ma a Palermo ha un nome ben preciso: spasimo, per eccesso di mare da guadagnare, di viaggi da incominciare. Per chi arriva, Palermo è tutto porto. Ma per chi vi è nato, tutta partenza, tutto desiderio, tutta fuga. In cerca di quello che c’è dopo, mai soddisfatti nel tempo del mai. Da Tuttoporto originano infiniti viaggi reali e immaginari. È il debito da pagare alla città, ma ne è anche la dolce malia: il richiamo verso qualcosa che è sempre dietro l’orizzonte. […] “A mare” e “amare” hanno lo stesso suono, e tutto ciò che è ambiguo qui è vero: il cuore spasima la vita e la vita non lo accontenta mai.

Mentre ero in Sicilia mi sono divertita a rubare fotografie di gente intenta a leggere. Non era un progetto intenzionale né avrei mai pensato di essere colpita da gente immersa nell’attività più spontanea del mondo. Eppure mi sono ritrovata almeno quattro volte in situazioni in cui la lettura era parte di un contesto più grande, e raccontava qualcosa di sé. Diceva del tempo libero delle vacanze e di un tempo tutto per sé, ricostruito in altri luoghi e altri tempi, quelli della pagina. Narrava di spazi che non erano mai la spiaggia o le oasi di relax dove i lettori erano intenti a leggere, e chissà quali erano: non lo saprò (quasi!) mai (l’eccezione, come vedete, è per la foto dove compare il libro di Pennac: sicuramente coi Malaussène ci troviamo a Belleville). Faceva presagire desideri di evasioni: la giornata al mare per fuggire allo stress, la vacanza lontano da casa per fuggire alle abitudini, la pausa sul balcone per fuggire alla costrizione delle mura di casa, il giardino silenzioso circondato di pini marittimi per ritrovare concentrazione e silenzio impossibili dentro il magma urbano. Il magma social, quello della quotidianità della maggior parte di noi. Ho osservato questi lettori, mano a mano capitati sul mio sentiero, e ne ho sorriso, complice, con un senso di condivisione e comprensione. E poi li ho resi immortali nelle mie fotografie, per ricordarmi della loro fuga, del loro spazio-tempo duplicato: erano lì, sui lettini, la spiaggia, le rovine e il balcone, ma era come se non ci fossero.

Nella luce d’oro bizantino, la bicicletta di questo ragazzo scintilla sino a sembrare inconsistente. […] Dal ventre della città araba lui può scivolare fino al porto vero e proprio, scovando la cattedrale arabo-normanna, che sembra un castello di sabbia costruito su un azzurro non contenuto in alcun aggettivo. Scorgere le cupole corallo di San Giovanni incendiarsi lì vicino, mentre l’oro dei mosaici della cappella palatina incastonata nel Palazzo dei Normanni testimonia invano l’eden che un giorno da quelle parti c’è stato e di cui è rimasta solo qualche tessera. E sono vere anche le macerie della Seconda guerra mondiale, immobile e pietrificata nelle vie del centro, come una foto in bianco e nero che non sbiadisce. Può lambire gli immensi ficus su cui il sole piove a cascate in piazza Marina e sentire l’odore del mare impregnare le pietre di tufo. Se non fosse il loro colore naturale lo crederesti di un giallo esagerato, ma è solo l’effetto del cielo che gli fa da quinta.

Da quando sono tornata da Palermo, vuoi le coincidenze, vuoi chi lo sa, non ho fatto che capitare su foto di amici e colleghi che, anche loro, erano in Sicilia. Ho rivisto la città pochi giorni dopo averne calpestato le strade, gli scorci, quel blu del mare estivo, le granite e i cornetti al pistacchio. Un’invidia che non si può dire. Stava tutto come lo avevo lasciato, era lì, un altro universo che potevo ritrovare solo nei libri, mentre aspettavo e aspetto ancora la prima scusa buona per tornarci. Che poi a pensarci era lo stesso universo che sapevo già, che volevo, che cercavo nelle letture pre-partenza e che anche altri rincorrevano. “Parto per la Sicilia, sto andando a prendere l’aereo” mi disse a metà luglio Alessandro Barbaglia intervistato al telefono, “vado in Sicilia, torno a metà agosto”, mi avvertì il mio amico del mare, quello che di solito non ci accordiamo ma ci vediamo sulla spiaggia e ci facciamo il bagno insieme. Un incrocio di segni, forse inconsistenti o forse no, che dicevano “Sicilia”: persone, pagine. Che poi saranno casualità, ma forse una pista sotto sotto c’è: le persone che ti stanno intorno, le letture in cui inciampi, senza troppo programmare, senza costruire, lasciando che ogni passo contamini il successivo, lo approfondisca, lo scopra, lo rivoluzioni. È finita che oggi, fine agosto, sono circa due mesi che leggo e sogno Sicilia, e ancora non sono sazia.

Ma qui tutto è porto. Non si contano le città che gli uomini e la natura hanno adagiato sul mare. Sono migliaia. Ma solo una può permettersi questo nome per vocazione, genio e destino. Palermo. Fiore per i fenici che la chiamarono Zyz, per i fiumi che come petali dal mare risalgono sino all’antico ricettacolo del centro. Fiumi che ora non ci sono più, neanche a cercarne i segni che ogni corso d’acqua leviga sulle cose. Pan ormus. Tutto porto per Greci e Romani. La sostanza non cambia. Così la chiamarono navigatori antichi sopravvissuti a tempesta e bonaccia quando attraccarono. Sabbie docili accolsero navi simili a teste che si adagiano su cuscini di seta e la baia accudì marinai stanchi in un abbraccio femminile: tutto porto. Chilometri di abbraccio. Senza tradimenti. Almeno in apparenza, come ogni cosa che millanta di essere “tutto”. Ma non si può ignorare che un abbraccio sa anche soffocare. Agguati tesi a chi, ammaliato da tanta dolcezza, abbassa la guardia: i porti sono pieni di marinai e marioli, affari e affanni. Anime doppie adatte a un luogo ambiguo. C’erano una volta e ci saranno sempre, così come ci sono sempre giovani sognatori disposti a prendere il largo, senza una meta precisa, per incapacità di sopportare la vista di tanto orizzonte senza spezzarlo.

Complice la sistemazione al Bed and Book, complice la pura casualità, c’è una serie di libri che fanno parte della lista delle prossime letture e che hanno più o meno a che fare con la Sicilia. Dopo Sciascia, Camilleri, D’Avenia, La Mattina e Calaciura, mi sono spalancati nuovi mondi. Prendete Calaciura, per esempio: non lo avevo mai letto, e poi ho scoperto che per Sellerio quest’estate è uscito il suo Borgo vecchio, che è ambientato proprio a Palermo. E poi c’è Appalermo, Appalermo di Carlo Loforti, uscito qualche tempo fa per Baldini & Castoldi: ancora una volta Palermo, le sue strade, le sue contraddizioni. Come non arrivare, quindi, a un Contromano Laterza, un racconto della città da chi l’ha vissuta: Palermo è una cipolla, di Roberto Alajmo. Sono solo tre strade, romanzi, scritti, racconti, visioni e storie. Ma quanti viaggi, quante scoperte, quanta bellezza in questa Sicilia.

 

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!