Lunedì scorso ha inaugurato il nuovo Museo Navale di Imperia, e ho pensato che andare a fare un giro con la macchina fotografica potesse essere una buona idea per raccontare, a parole e immagini, un pezzettino di storia della mia città.

Davanti alla scena del taglio del nastro, a cui erano presenti naturalmente plotoni di autorità civili e militari e un nutrito numero di ex marinai che oggi fanno parte dell’Associazione Amici del Museo (e di cui vi riparlo tra un po’ perché hanno un ruolo importante), ho pure incontrato un’amica archeologa e blogger, che oltre a saperne un sacco di comunicazione digitale, ne sa anche tanto di musei (ci lavora!), e con la quale dunque ho potuto farmi un’idea del museo da un punto di vista, se non professionale, molto vicino a quel che generalmente si intende parlando di allestimento museale, didattica, comunicazione e via dicendo. Dicevamo: taglio del nastro. Comune, Provincia, Regione, ma a conti fatti tutti e nessuno, in un progetto che galleggia in balìa delle onde da anni e ora è arrivato a un approdo grazie all’aut aut dato dallo scadere dei fondi europei che hanno permesso gran parte dei lavori di restauro. Ma è necessario un flash back, ed eccolo.

Il Museo Navale di Imperia è nato negli anni ottanta per iniziativa del comandante Flavio Serafini e degli Amici di cui sopra, e si trovava fino a pochi giorni fa nella sede ufficiale che l’ha ospitato per tutti questi anni, ovvero Piazza del Duomo. Locali limitati, gestione non professionale (leggi: trattavasi – come un po’ ancora ora del resto – di un’iniziativa curata da un gruppo di appassionati e volontari, non esperti di allestimento museale) accumulo disordinato ed entropico di cimeli di ogni specie (divise, piatti, modellini, pezzi originali, foto, documenti) ne ha da sempre caratterizzato lo spirito e, se vogliamo, il gusto. Perché il Museo Navale di Imperia era quel che si è soliti definire una collezione, ovvero, come già ho scritto, un accumulo di materiale di un certo tipo  (in questo caso oggetti legati dal comun denominatore della nautica, del mare, delle grandi imprese, che fossero esse capitanare un transatlantico o calarsi nelle profondità dentro una tuta da palombaro). Quel che mancava, confermerebbe la mia amica che ne sa di musei, era un percorso o, come invece conferma la me semiologa, un senso. Sì, esattamente, un senso nella doppia accezione di “significato” e “percorso”. Che in fondo, se ci pensate, è ciò dentro cui vi trovate immersi ogni volta che entrate in un museo: partenza dal medioevo, arrivo al gotico, esplosione del Rinascimento, per esempio; o ancora infanzia del pittore, primi esperimenti, la fama, la vecchiaia. Se vogliamo parlare di musei didattico-scientifici, l’esempio calza ancora di più: pensiamo al Museo del Cinema di Torino, quello nella Mole, che parte dalle ombre cinesi e arriva al cinema oggi. Non si tratta solo di percorsi storici indietro e avanti nel tempo, attenzione, si tratta di costruire una storia, un qualcosa che racconti un aspetto, una fetta di argomento, lo esplori con un inizio e una fine. Insomma, si va per temi e argomenti.

Ed è quello che è stato fatto nel nuovo Museo Navale di Imperia, che è stato allestito nei ben più ampi locali della ex ditta SALSO, che produceva olio (a Imperia siamo famosi per l’olio, ma questa è un’altra storia che – letteralmente – affonda le radici sul territorio. Facciamo che ve la racconto altrove e con le scuse e gli input giusti). Locali immensi, e non per questo non problematici, vista la selva oscura burocratica dentro cui erano e in parte ancora sono incastrati, e che per anni ha pesato sulle reali possibilità di spostare lì il museo. Ma mandiamo avanti velocemente: lunedì il museo ha aperto. Ancora incompleto – manca un’ala, che sarà dedicata alla storia della nautica e che, pare, presto aprirà -, raffazzonato (perdonatemi il termine, non vuole avere accezione negativa ma sottolineare la fretta con cui si è agito per le ragioni di cui sopra) e, nel pieno spirito italico, costellato di imperfezioni come un colapasta, che nulla hanno a che fare con le responsabilità di qualcuno di preciso, ma sono l’inequivocabile conseguenza di un lavoro gestito da tante teste e pochi soldi.

Dunque questo nuovo Museo, secondo me, ha un potenziale ENORME. Tutto starebbe ad avere le competenze – economiche innanzitutto, e culturali-gestionali – per farlo marciare a vele spiegate nel mondo dei musei dedicati alla nautica, che sono pochi, sono rari, e forse non hanno tutto lo straordinario patrimonio di reperti e storie da raccontare che ha quello di Imperia.

Partiamo dalla prima sezione, quella dedicata all’archeologia subacquea. Eh sì, perché in Liguria di Ponente siamo famosi per gli Indiana Jones in maschera e pinne, il cui pionieristico comandate fu l’archeologo Nino Lamboglia, personalità importante per un sacco di cose belle, alcune delle quali le trovate qui. Una di queste cose è lo “scavo” della nave romana affondata davanti ad Albenga, negli anni Cinquanta, la prima scoperta archeologica che diede il la alle ricerche subacquee in tutta Italia. Ebbene, c’erano altre nave nei fondali dell’imperiese, come la Felix Pacata, ritrovata al largo di Diano Marina con all’interno ancora diversi dolia. Che? Dolia (singolare: dolium): enormi e panciuti recipienti di terra cotta che servivano per trasportare vino. Diversi dalle anfore, sia per forma che per contenuti. Alcuni di questi dolia si trovano proprio al Museo Navale di Imperia, contorniati da quello che era un ex magazzino dell’olio, in una cornice un po’ spoglia e, cosa a cui bisognerà porre rimedio, avulsi da qualsiasi pannello informativo che ne racconti la storia e soprattutto li contestualizzi all’interno del grande universo dell’archeologia subacquea. Voto: 10 ai dolia, 4 all’allestimento museale. Insomma, vale la pena vedere dal vivo questi contenitori di duemila anni fa, ma nel 2016 la comunicazione è ormai imprescindibile, ed essendo davvero mille i modi per farla – e per farla bene – non si può presentare un’area così spoglia intorno a reperti così importanti.

Detto questo, saliamo le scale. Il piano di sopra, nell’attuale area allestita, è tutto dedicato alla nautica moderna, con diverse sezioni che toccano la palombaristica, i grandi transatlantici da guerra e da crociera, i sottomarini, le divise, la vela. Ricca la parte della palombaristica, con tanto di tute e attrezzatura originale, nonché modellini che – credo – debbano essere mobili ma… “work in progress”. A rimediare ci sono però pannelli ben fatti e video, sia dell’archivio Luce (in particolare, si raccontano le imprese della motonave Artiglio, che partecipò proprio agli scavi di Lamboglia di cui vi dicevo sopra) che a scopo didattico-multimediale. Si tratta di pannelli-video in cui un attore – che, mi piace dirlo, è l’imperiese Simone Gandolfo – impersona grandi personaggi del mondo nautico, racconta storie e spiega cose sulle sale.

Dei transatlantici sono presenti due grandi ricostruzioni, che permettono di entrare nelle sale macchine e di comando. Un’idea geniale, che permette a tutti di immedesimarsi e apprendere cosa volesse significare stare su una nave, e che è arricchita da agganci al reale, che sono una serie di reperti originali collocati nelle loro posizioni corrette e magicamente pronti a riprendere vita. Ci si mette al timone, si sperimenta il viaggio, si ascoltano da “cornette” racconti in diretta di bombardamenti e manovre spericolate che fecero la storia di navi e comandanti. Facce di attori compaiono qua e là esplorando le grandi navi, di cui sono ricostruite anche alcune aree, come la cabina del comandante o la cabina radio. Ecco, la cabina radio ospita una cosa curiosa: una radio funzionante, gestita dal gruppo dei radioamatori che è pronto a spiegare come funzioni (e come funzionasse, ora è cambiata e va per gps) la comunicazione navale via radio. Codici morse, gracchiare di frequenze, la mappa dei radioamatori e un sottofondo sonoro che non potrà non ricordarvi Giovanni telegrafista di Iannacci, ma che per l’antica marineria era l’evocazione diretta del marconista di bordo. Cosa facesse costui, ve lo dice il nome stesso della sua professione. Idea vincente a mio parere, sarà che la radio mi affascina. Ma credo che possa funzionare e incuriosire frotte di bambini cresciuti a pane e wifi.

La galleria delle antiche divise è estesa, forse fin troppo. E ha una grande, grandissima pecca che temo sia ancora una volta dovuta alla carenza di fondi: i manichini. Di diverse fatture, alcuni più vecchi, alcuni rotti, pezzi di scotch che si intravedono, calze rotte, baffi pendenti. La magia e il fascino delle divise, in un attimo, svaporano: subentra la finzione, una finzione che è ahinoi palese, datata, e per questo nel 2016 dichiara tutta la sua poca forza simbolica. Quello che si comunica non sono le fogge, l’eleganza delle divise, ma la carenza di fondi di un museo ricchissimo in reperti ma povero in voglia di mettersi a fare le cose per bene. Idem, ahinoi, per l’esplosione di bacheche palesemente vetuste e tutte diverse piazzate qua e là, che riempiono inutilmente un ambiente già percorso, già “museo” nel senso che ho spiegato prima, palesando inutile entropia e un collezionismo cieco, che non porta da alcuna parte. Nel rumore, il messaggio si perde.  E poi didascalie su fogli ingialliti e battuti a macchina, quadri storti, assenza di pannelli informativi a scopo didattico. No. Così non va: sembra di stare nel vecchio museo, la soffitta dei ricordi del comandante di Mary Poppins, quello che sparava colpi di cannone dal tetto per segnare le ore. E il rimprovero certo non è per chi ha curato tutto questo con un lavoro solerte e di pura passione, ma per le amministrazioni che avrebbero dovuto affiancare allo spostamento dal vecchio al nuovo museo supporto economico e competenze. La speranza è che aprendo l’ala nuova tutto questo si risolva, il timore è che se continua a funzionare come sopra, forse non si risolverà affatto e lo spaziale Museo potenziale resterà un sogno. Ah, perché in preparazione non c’è solo una seconda ala, ma anche un planetario che si candida a diventare uno dei più grandi d’Italia. Già ci vedo un centro di ricerca specializzato e un sacco di attività didattiche, ma davanti a una nave che galleggia piena di faglie, temo sia piuttosto utopistica come pensata. Spero i posteri mi smentiranno.

Dopo la tirata d’orecchie, c’è una parte che mi piace tantissimo, ed è quella dedicata al mondo della vela. Vela a Imperia è Vele d’epoca, e difatti c’è una sala tutta per loro, con affascinanti stampe e le magliette delle barche e dei velisti passati da Imperia nel corso del tempo. Ma vela è anche una barca a vela a bordo della quale salire per provare a timonare: venti, correnti e ostacoli sono regolati da un dispositivo multimediale, e tutt’intorno pannelli e oggetti che spiegano il funzionamento delle cime, le parti della barca, i venti. A ricordare la ricchezza del bel mare di Imperia, subito dietro c’è uno spazio dedicato al Santuario dei Cetacei, ancora in fase di allestimento, ma con tante bacheche ora vuote che, spero, prenderanno vita con reperti scientifici importanti. Sarebbe splendido poter contenere in un solo luogo, ben fatto e orientato davvero a una comunicazione chiara e completa, tutte le ricchezze che il mare porta e offre, e nel tempo ha dato alla città. I grandi uomini, la passione per il mare, la navigazione e le sue caratteristiche, le grandi scoperte, i tesori del mare, le meraviglie sommerse, la fauna, la flora e un intero universo simbolico con le radici tra le onde del Mediterraneo.

A passeggiare nel grande nuovo museo tutto questo emana il fascino che solo le cose marinare sanno evocare, quel misto di avventura, pericolo, poesia e senso di libertà al sapore di iodio e di pagine di letteratura intrise di sale. Ecco, il museo, come ho cercato di raccontarvi, è ancora in fase di cantiere: tante cose devono essere ultimate e messe a posto, tanta narrazione deve ancora prendere forma. Ma quel che vorrei farvi arrivare alla fine di questo lungo post è che la sostanza c’è, è grande, vasta, profonda e meravigliosa. E, da persona nata a Imperia e che ama il mare in tutte le sue declinazioni, non posso che augurarmi che l’apertura sia il primo segnale di un ingranaggio che inizia a macinare, e spero ingranerà al meglio tutte le marce che ha, per fare di questo luogo un punto fermo di conoscenza e meraviglia, oltre che di conservazione e di narrazione della storia della città, e delle tante storie della gente che vive il mare.

Se capitate da via Scarincio, sappiate che potete dare una sbirciata al museo nei seguenti giorni e orari:

martedì: 09.30/11.30 (solo scuole)

giovedì: 14.30/18.30

sabato: 14.30/18.30

Il biglietto costa 7 euro (3,50 per minori di 14 anni, gruppi e studenti), e mi auguro che i soldi così raccolti vadano diretti alle casse per la gestione del museo stesso: ce n’è un grande bisogno!

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!