Un titolo e una copertina. Partirei da qui per parlarvi del nuovo romanzo di Matteo Caccia (conduttore di “Pascal” su Radio2: non so voi, ma è un programma che seguo parecchio e mi piace molto, perché fa narrazione radiofonica, racconta storie ed episodi di vita. E lo fa in modo bellissimo). “Il silenzio coprì le sue tracce” è il titolo che svetta nel bianco nebbioso di un bosco a testa in giù, dove le chiome appuntite di pini e abeti sembrano piovere e coprire di misterioso fascino vegetale un alone indistinto, perso nel mondo parallelo che il bosco rappresenta per noi tutti, abituati a una vita che si svolge ben al di qua di quell’universo.

Invece questo libro è ambientato proprio in quel mondo, quello dei boschi. C’è tantissimo vegetale tra le pagine di Matteo Caccia, c’è quello che Italo Calvino definirebbe “ubagu”, il mondo dove non batte sole, del muschio sui tronchi, dell’umido, del verde cupo, del selvaggio. Selvaggio è una delle parole chiave, forse quella principale attorno alla quale ruota tutta la vicenda. Il suo protagonista è Pietro, detto Zambo, che un giorno lascia Genova alle sue spalle, un’auto abbandonata al suo destino, e zaino in spalla prende la via dei monti, dei boschi, in compagnia del fedele amico a quattro zampe Tobia. Qui si apre per i due un mondo di mappe e sentieri, di nuovi odori, nuovi modi di vivere, tra tende e rifugi improvvisati o gestiti da personaggi “border line”, in bilico tra la vita della civiltà e quella solitaria e appartata dei boschi. Pietro sta cercando di andare in Maremma, ha una missione, che ha a che fare con una vecchia pistola del padre risalente ai tempi della Resistenza. Pietro ha anche un passato ingombrante, dove quel padre, eroe medagliato della lotta partigiana, ha una parte importante che si svelerà piano piano, passo dopo passo. Non è richiesta fretta al lettore, così come lo stesso Zambo non cammina con fretta, anzi, dilata il suo spazio-tempo nelle camminate verso la meta, negli incontri che decide di fare, e dai quali, come in ogni storia, nascono nuovi percorsi, nuovi ostacoli, nuove decisioni.

Non vi svelerò altro della trama, che si snocciola sulle quattro parti che compongono il libro, perdendo e ritrovando la vecchia pistola, e allo stesso modo perdendo e ritrovando le persone che costellano il cammino di Zambo. Per quanto infatti lui intraprenda un cammino che volontariamente lo allontana dalla città e dalla civiltà, questo percorso non è totalmente selvaggio, dominato dalle forze inafferrabili della natura. Tutt’altro: è un percorso che resta umano, il viaggio di un uomo che volontariamente si pone sul confine tra civiltà e mondo selvaggio, e ne segue il crinale, affacciandosi di volta in volta da uno o dall’altro lato. Personaggio tormentato proprio perché non scolpito unilateralmente, Pietro ha però un suo alter-ego amico e nemico, che è l’altro grande e simbolico protagonista del libro.

Si tratta del lupo. Animale selvaggio, feroce, abitante di quel mondo all’incontrario in copertina, che proprio tra quei tronchi e quella nebbiolina umida si aggira, solitario e in cerca di una femmina, affamato o ferito. Il lupo è al contempo un animale presente nella storia del viaggio di Pietro e una grande metafora. Accanto a un lupo in cura in una clinica veterinaria apposita, Pietro sviluppa una sorta di istinto primordiale, quello alla libertà, alla selvatichezza, dove dominano pulsioni come la fame, il sonno, dove si pensa solo alla tattica per procacciarsi cibo. Pagina dopo pagina il cammino del lupo e quello di Pietro si sovrappongono, e poi si intersecano, quasi a scambiarsi le parti, contaminandosi, suggerendosi, aiutandosi. Lupo solitario, si è soliti dire: è un lupo che si è staccato dal branco e percorre chilometri e chilometri verso la propria meta. Non è detto riesca a trionfare: i pericoli e gli imprevisti sono tanti, e lui è solo. Sembrerebbe la storia dello stesso Pietro, che continua a camminare ai margini di una civiltà che non gli dà nulla per restare, e che sembra più a suo agio tra le fronde e la selvaggina.

A tratti questo libro mi ha ricordato le storie di Enrico Brizzi, i camminamenti a piedi che così tanto hanno caratterizzato vita e racconti dell’autore. C’è la vita all’aria aperta, la fatica, gli zaini, le tende e la difficoltà di nutrirsi spesso senza le comodità quotidiane. Ci sono i pericoli, ci sono i silenzi e la potenza della natura dei boschi. Ma non è come Brizzi, qui. Innanzitutto Pietro è solo, il suo obiettivo non ci è così chiaro all’inizio e capiamo si tratta di qualcosa di personale, quasi religioso, portato avanti con determinazione ma senza ossessioni. Capiamo che dietro a questa scelta c’è un trama, e solo all’ultimo ricomporremo tutti i tasselli. Questa è una storia che procede a passo doppio: lineare nel suo svolgersi attuale, a bagliori quando, in alternanza, riprende episodi del passato della vita di Zambo. Richiede sforzo di lettura, di interpretazione. Insomma, è silenziosa e austera come un bosco da esplorare. L’altra forte differenza rispetto a Brizzi è la solitudine. In Brizzi trionfa il gruppo, il legame, la relazione. Qui il faro è puntato sui solitari: Pietro, il lupo, i vari personaggi che ruotano intorno alle vicende. Sono tutte persone e aninali sul crinale, che hanno scelto nella dimensione del bosco lo spazio privilegiato per mettere in scena la propria ricerca, o il proprio ritiro dalla ricerca. Non c’è gruppo, ma attori singoli. Ognuno con i suoi segreti, ognuno con i suoi percorsi, che spesso, un po’ come in uno schema alla Orlando furioso, si intrecciano e trovano punti di contatto.

È una storia strana, quella di Matteo Caccia. Una storia ombrosa che nonostante tutto attira. Una storia che ha in sè il colore e l’odore di quella copertina lattiginosa, quasi attutita, opaca, visibile ma ancora e anche invisibile a chi non sposi la selvatichezza che la abita. Una storia che assaggia il fascino della natura senza amplificarlo al megafono, semplicemente vivendolo a fianco a un uomo che assapora la discesa nei propri istinti originari, quelli selvatici, quelli del lupo.

Un’ultima nota vorrei dedicarla proprio al lupo. Il 6 aprile sono stata alla presentazione del libro di Matteo Caccia al Circolo dei lettori di Torino. Non c’erano solo l’autore e Davide Longo, presentatore, ma anche due ricercatori (Mia Canestrini e Luigi Molinari) del Wolf Appennine Center, centro di ricerca che si occupa della vita dei lupi in Appenino (qui la pagina ufficiale, qui invece quella su Facebook). Se avete letto e seguito qualche notizia negli ultimi tempi, saprete che dopo anni di abbandono, il lupo sta tornando nelle montagne e nei boschi italiani, in Appenino e anche in ambiente alpino. Sono socia WWF da circa 21 anni, dunque ho vissuto in prima persona la campagna per il lupo, attirata e un po’ riverente nei confronti del fascino rappresentato da un animale schivo, regale, selvaggio, eppure simile al cane e dunque vicino all’uomo. Ancora e sempre selvatico, feroce, preda degli istinti, il lupo è infatti un animale sociale, che vive in branco quasi come l’uomo.

L’attenzione concentrata sul lupo nell’ambito della presentazione del libro di Matteo Caccia, che quel giorno ancora dovevo finire di leggere, mi ha fatto vivere la storia del lupo in un altro modo. Mi ha fatto capire l’importanza dei centri di ricerca, innanzitutto, ma mi ha anche aiutato a entrare meglio in sintonia con la vita del lupo, le sue abitudini. Mi ha spiegato cosa sono gli ibridi e perché i ricercatori cerchino di evitare accoppiamenti tra cani e lupi che impoverirebbero il patrimonio genetico dei secondi, e mi ha chiarito perché alle volte alcuni lupi maschi si allontanano dal branco e percorrono distanze enormi in cerca di una femmina. Insomma: da un romanzo, una storia, sono discese anche alcune nozioni su una specie protetta e spesso preda – reale e metaforica – dell’ignoranza umana. Credo sia bello e importante che dai romanzi derivi anche una forma di consapevolezza del genere: è certo che io, dalla storia di Zambo in avanti, non penserò ai lupi nè guarderò più i boschi con la superficialità che probabilmente usavo prima, ma con il rispetto che anche la conoscenza che passa da una semplice storia sa generare.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!