La lettura de “I pesci non hanno gambe” di Jón Kalman Stefánsson, non lo nego fin dalla prima riga, è stata complessa. Complessa per vicende extralibro, che mi hanno fatto iniziare la lettura tempo fa e poi abbandonarla per dare precedenza ad altro. Complessa perché non è esattamente il tipo di testo adatto al prendere e lasciare che ha subìto, e non lo è non tanto per motivi intrinseci legati al tema, quanto per la struttura, perché questa storia calata dritta dritta nella fascinosa Islanda alterna i capitoli pescando episodi e momenti da diversi piani temporali, almeno tre. Dunque è facile intuire come, nel tira e molla che ha contraddistinto questa mia lettura, la confusione tra i piani, e la memoria che si andava sbiadendo, l’abbiano vinta facile nel rendere la lettura faticosa. Ciliegina, sarò banale ma ahimé è così, i nomi islandesi. Di luoghi e persone. Nonostante la traduzione che ho intuito essere eccelsa della nota Silvia Cosimini, che ha riportato in italiano una musicalità poetica del testo, l’incontro-scontro con l’Islanda è stato di impatto, faticoso e dispendioso in termini di attenzione. E quando leggi di corsa, l’attenzione spesso ti frega. C’è però una via di salvezza: si tratta del primo capitolo di una saga, di cui possiedo anche il secondo volume “Grande come l’universo”: mi rifarò così. Perché di Stefánsson ho sentito parlare e ho letto troppo bene per arrendermi così. Vorrei capirlo meglio, fare più miei quei due o tre spunti che ho solo intuito tra le pagine di questa storia.

Che sì, è anche vero: era una lettura a cui dare più valore, intorno alla quale informarsi, guardare almeno una cartina di Islanda per capire dove eravamo, e il perché di tante cose. Invece l’ho iniziata così, all’avventura, e per buona parte del libro non avevo idea di dove fosse questo infame posto, nero di cenere vulcanica e ghiacchi, privo di alcunché, attività commerciali, ormai collassate, attrazioni turistiche, vita e socialità. Parlo di Keflavìk, che solo quando ero a metà libro, leggendo un articolo di giornale, ho scoperto essere l’aeroporto islandese. Lettrice-Stefánsson, 0 a 1.

Ma torniamo alla storia, che come accennavo è una storia dislocata tra più personaggi e su più piani temporali. Il protagonista nell’oggi è Ari, poeta ed editore, tradisce la moglie e, con un deflagrante gesto enfatico come passare il braccio sul tavolo a ‘mo di tergicristallo, spazza via quanto costruito fino ad allora e fugge dal disastro in Danimarca. Sospeso tra la volontà implicita di quel gesto e l’attonita constatazione della disgregazione di quanto costruito, Ari è sorpreso mentre torna, dopo anni, in Islanda, a Keflavìk. Ce lo racconta l’amico, la voce che narra e che non vediamo. Che non solo scava dentro ad Ari, ma ogni tanto interviene in prima persona, ripescando ricordi di lui e Ari ragazzi, negli anni Settanta, tra adolescenza, timidi approcci con l’altro sesso, musica dei Beatles ascoltata da un innovativo stereo e lavori nell’industria del pesce, unico indotto dell’isola, all’epoca, unica speranza di impiego.

È il pesce, perché in Islanda c’è la presenza ingombrante e assidua del mare. Del resto siamo in un’isola fatta di mare, ghiaccio e vulcani. E poi c’è quell’indizio, che apre il libro e che dà il tono della narrazione stampato sulla quarta di copertina:

 “A Keflavìk ci sono tre punti cardinali: il vento, il mare e l’eterno”

Un indizio non da poco per una storia che, tra i suoi, di punti cardinali, ha sicuramente una geografia fisica e mentale, che è quella dell’Islanda. Lo riconosco: tra le ragioni che mi hanno spinto a leggere Stefánsson c’è la volontà di saperne di più di un posto che è estremo, e che immagino per questo essere affascinante, bello, ancora dominato dalla natura e dalla sua forza. Non credo di sbagliarmi se intuisco che la stessa imperante forza della natura, tra mare, fuoco e freddo, sia in qualche modo instillata negli occhi dell’autore, e faccia parte quasi come un protagonista di questa storia. L’Islanda di oggi, ma anche l’Islanda di ieri, con la storia – e questa sì, dà la dimensione della saga – dei nonni di Ari, di quel marinaio sempre fuori in mare e della moglie, quasi dimenticata a casa, a morire di una non-vita, fuori dal mondo, dalla socialità, dall’amore per una persona costantemente distante.

“È sorprendente, e non poco, che esistano uomini che si ritengono perfettamente degni dell’onore di questo titolo pur non essendosi mai misurati con il mare”

Il mare ritorna, e del resto è la grande metafora del libro, che compare per metonimia anche nel titolo: i pesci non hanno gambe. Se l’isola ha il mare ovunque, intorno, è pur vero che la terra esiste, e qualcuno deve pur restarci, nonostante il richiamo dell’orizzonte marino sia forte, luogo di avventure, allontanamento che significa al contempo vita e morte, con i pericoli che nasconde, certo, ma talvolta anche con la malsana idea di tentare di camminarci, su quel mare, anche se l’acqua non regge, inghiotte, cancella vite che sembrano insipide, vuote, solitarie e senza senso. E se l’uomo, in mare, sfida se stesso e si definisce adulto, mettendosi alla prova e trovando una dimensione, la terra può schiacciare e portare a gesti folli. Eppure non possiamo fuggire in mare, non sappiamo nuotare, abbiamo le gambe e non le pinne, il mare è l’orizzonte che attrae ma che dobbiamo imparare a gestire: i pesci le gambe non le hanno, non devono starci, sulla terra. Ma senza un orizzonte marino i ribaltamenti improvvisi, gli errori, i gesti impulsivi prenderebbero il sopravvento e sprofonderebbero. Talvolta lo fanno, la saga “antica” ne è la dimostrazione, e riverbera difficoltà, depressioni ed errori fino all’oggi, con lo stesso senso di smarrimento, la stessa incessante sensazione di perdita.

“piangiamo perché la lingua è imperfetta e non riesce a calarsi negli abissi della vita, non arriva nemmeno a metà dei baratri più profondi? Le lacrime cominciano forse dove si fermano le parole, sono messaggi dal profondo, dall’abisso insondabile e incontaminato?”

Questo di Stefánsson è un romanzo sulla fine della passione, sull’appiattimento che la vita a volte, con la sua trama, ci porta, sulla vita di coppia che si spegne, ma anche sul lavoro concreto e materiale che scorpora i sogni, sullo spegnimento delle scintille che ci tengono vivi e accesi, delle stelle nel cielo terso e freddo di Islanda. I pesci non hanno le gambe per camminare, devono suolo nuotare, ma gli umani sì, le gambe le hanno, e spesso se non possono usarle, intrappolati nelle loro reti – geografiche, domestiche, relazionali -si sentono come impazzire, fanno gesti insensati, e poi attoniti si girano indietro a contemplare. Talvolta non capiscono, altre insabbiano la testa e vanno avanti, comunque.

“Guarda il mare, non ricorda quand’è stata l’ultima volta che ha pensato alla felicità, ha avuto troppo da fare, e allora si rende conto , adesso che forse è troppo tardi, che la gente perde le cose a cui non pensa, che non coltiva”.

“Poi viene la notte. Viene con la sua bisaccia piena del buio di gennaio e di stelle che risplendono come ricordi lontani in cielo, viene con i sogni che poi ripartisce, equamente o meno. Viene la notte di gennaio, che sa essere così cupa e greve che chi si sveglia nel suo grembo e guarda fuori si persuade che il sole non possa spuntare mai più in questo mondo di tenebre e stelle”

Per questi motivi, è un romanzo lento, e un romanzo oscuro. Sono fattori che hanno anche a che fare con il paesaggio, il tono dei personaggi e naturalmente la struttura, i palleggi tra ieri, ieri un po’ meno recente e oggi, gli intrecci tra storie che piano piano escono dall’indistinto e assumono un’armonica visione più grande, capace di accompagnarci con un senso, una traiettoria. Se dovessi ridurre la definizione a una parola, direi che è un romanzo della solitudine, quella che ci prende guardandoci indietro e meditando su quanto abbiamo seminato, che ci coglie perché dentro di noi brilla qualcosa, la meta da raggiungere, lo spirito che ci anima, lo stesso che ci fa amare e sbagliare.

“Chi non prova nessun dolore o emozione di fronte all’esistenza ha il cuore freddo e non ha mai vissuto – devi essere riconoscente per le tue lacrime”

Ari Lavora con le parole, è poeta ed editore, e questo non è un caso. Ari e il narratore hanno un rapporto privilegiato e speciale con i libri, i dischi, la musica, insomma, già da adolescenti sono attenti alle parole, aspetto che li differenzia dai coetanei, li fa essere in qualche modo speciali, nonostante la timidezza. Sapevo che l’autore è noto per la poeticità della sua scrittura, e qui ho ritrovato tanti esempi di questa caratteristica. In questo romanzo c’è poesia, c’è musica. C’è nel senso di poesia come struttura di versi, perché vi si ripetono strofe, stringhe di parole, musicali, ritornelli che cadenzano la narrazione e creano ritorni di immagini, capaci di collegare pensieri, creare coesione e dare senso. I titoli dei capitoli riprendono frasi che arriveranno, e si agganceranno alla domanda di noi lettori dando risposta ai perché. Ecco, ecco la storia che si dipana, anzi il filo dei pensieri. Perché questa più che una storia è un intrecciarsi di pensieri, uno scavo al tempo stesso delicato ma deciso dentro ai personaggi, al loro fermarsi e guardare la vita, attoniti, fragili e forti, talvolta freddi come la loro terra, che è abitata, dentro, da passioni grandi e calore che esplode. E c’è musica, in questa storia: quella reale, dello stereo, delle canzoni che accompagnano tappe della vita e raccontano, e suggestionano, ma anche musica della narrazione, aspetto che mi porta a pensare alla difficoltà della traduzione da una lingua così lontana dalla nostra.

Insomma, è un romanzo che come una torcia nella notte segnala la sua presenza, il suo lavoro letterario, la sua poesia, una storia che manda bagliori attraverso pensieri e riflessioni dei suoi personaggi. Ma è anche una storia che, per me, resta enigmatica, distante, fredda e ancora da esplorare come la sua terra, quell’Islanda che ci sembra così esotica vista dalle sponde del Mediterraneo, ma che in fondo è abitata da persone che, come noi, affrontano la vita e sono circondate dalle sorti alterne della fortuna e dell’amore. Resta il fatto che, al di là della mia comprensione per questo romanzo, ci ho trovato dentro scorci belli come aurore boreali, di quelli che non importa capire, l’importante è esserci, vederli e sentirli:

“Abbraccio è senza dubbio la parola più bella di ogni lingua. Usare entrambe le braccia per toccarsi, creare un anello intorno a un’altra persona, unirsi a lei, per un attimo, due persone che diventano una nel flusso della vita, sotto il cielo aperto, e magari un cielo senza Dio. Tutti abbiamo bisogno, in qualche momento della vita, di poter contare su un abbraccio, a volte un bisogno doloroso, un abbraccio che può essere una consolazione, un pianto liberatorio, o un rifugio quando qualcosa si è rotto. Desideriamo un abbraccio semplicemente perché siamo essere umani e il cuore è un muscolo sensibile”

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!