Pantelleria. L’ultima isola è uno dei libri che ho acquistato al Salone del libro 2017 e che attendeva lì, sulla pila del comodino, di essere letto. Incuriosita dal suo titolo, dalla collana editoriale (un Contromano Laterza) e dall’argomento, lo avevo preso perché di Pantelleria sento parlare da tanto, perché per le isole vulcaniche siciliane e per la Sicilia tutta ho grande attrazione, e perché a Pantelleria ci vive un’amica che condivide la mia passione per il pistacchio, i gatti, le risate e le cose belle e buone. Poi, a luglio, è arrivato il mio viaggio a Palermo, ed è stato lì che ho avvistato questo libro di Giosuè Calaciura sulla mensola del Bed and Book, nella stanza dedicata al mare, e mi son detta che allora c’era una priorità, e che dovevo andare a Pantelleria, seppure per ora solo metaforicamente.

Sapevo che quest’isola è un avamposto nell’ombelico del Mediterraneo, distante, distante da tutto e da tutti, dalla costa italiana e anche da quella tunisina, che pure le è più vicina in miglia marine. Immaginavo, per foto e racconti, la meraviglia del paesaggio scolpito dalla natura, a cui associavo scenari visti alle Eolie, le uniche isole vulcaniche siciliane che abbia mai visitato, oltre alle Egadi che però sono fazzoletti di terra meno eclatanti, con una geologia più mansueta. Eppure, a fronte di tutte queste nozioni che già avevo, questa lettura mi ha colpito intensamente, mi ha sedotta e fatta innamorare di un’isola su cui non sono mai stata e che, ora più che mai, ho un desiderio intenso di vedere, di vivere.

Come tutti i racconti-reportage-esperimenti della collana dei Contromano, anche questa narrazione è insolita: non è una fiction, non è però nemmeno una descrizione giornalistica, intarsiata come è di magie linguistiche che giocano con la meraviglia del paesaggio e con quella della scrittura, e ricca di storie, aneddoti e pensieri che sì, raccontano l’isola, le sue caratteristiche, le sue tipicità, ma le animano dentro a storie particolari, a pensieri e a visioni soggettive.

L’isola del tesoro, l’isola che per magia, come la Ferdinandea, prima non c’era e adesso c’è, sorta nel mezzo del Canale di Sicilia dopo una stravolgimento vulcanico di dimensioni enormi, che l’ha battezzata, isola senza spiaggia, perché tutta di roccia, ossidiana e lava. Pantelleria si presenta così: geologia, natura, colori, profumi e suggestioni. Impossibile non sentire quella vena di bellezza pulsare, impossibile non provare attrazione per quell’occhio verde, nero e blu in mezzo al mare, un occhio che prima non c’era, ma dopo l’eruzione persa nei meandri della storia, oggi, c’è.

Eccola l’isola, nera di lava, verde di vigneti, oro di Zibibbo, gialla di zolfo venato di rosso dalla chimica vulcanica, blu e indaco di mare. Solo l’avvicinamento vale l’intero viaggio. Ecco lo specchio di Venere, lo chiamano u bagnu, azzurro come l’unico occhio di un ciclope folle spalancato sul cielo in un’interrogazione esterna, senza risposta.

Giosuè Calciura accompagna in un viaggio a Pantelleria che inizia dal traghetto in partenza dall’Isola Madre e arriva nella terra del vento e dei dammusi, le tipiche case in pietra ora diventate luoghi di vacanzieri. Ma seppure oggi Pantelleria sia vissuta così, d’estate, nel tempo delle vacanze e dello splendore del mare, resta un’isola ruvida, di roccia, difficoltà, lontananza, e l’autore non lo nasconde mai, ricordando sempre la presenza di “un estenuato faccia a faccia tra la fatica della vita e la semplicità della morte”. Pantelleria è isola di vento, imprevedibile e spesso così forte da impedire anche ai più arditi comandanti di atterrare con l’aereo che sfida la lunghezza della piccola pista, la forza delle correnti. Pantelleria è piena di pendolari, che alle tante ore di traghetto preferiscono il volo, avventuroso e dalla sorte sempre incerta.

A Pantelleria l’approdo bisogna desiderarlo fortemente, nel sintomo conclamato e violento del nero ossidiana e del verde fosforescente dello Zibibbo […] l’angoscia inesprimibile di aver messo piede nell’estremo conclusivo della Creazione e nello stesso tempo nel laboratorio dove la Natura sperimenta se stessa e il suo atto definitivo.

In quest’isola, si intuisce anche solo leggendo, e immaginando quei colori e quelle forme, la natura esplode, e con essa si batte l’uomo, nello sforzo imperituro di stare lì, non una sfida ma un scendere a patti, un conoscere, capire e adattarsi a quanto proposto dalla signora del vento, del sole e delle forze geologiche. Così si coltivano lo zibibbo d’oro, i capperi speciali e gli agrumi, dolce frutto di fatica e ingegno. Leggendo il libro di Calaciura ho scoperto che sull’isola esistono giardini di agrumi coltivati “a conca”, i jardini, si chiamano, sono definiti “architettura, metodo, monumento”. Si tratta di torrioni circolari di pietra che diventano scrigni di umidità necessaria alle piante, solitamente agrumi, per sopravvivere: in quei coni di ombra si raccoglie la più piccola goccia di acqua generata dall’atmosfera e preziosissima per la vita di queste piante, che raccontano di Sicilia, profumano di Mediterraneo e custodiscono la vita e gli intrecci di culture che l’hanno generata e plasmata.

Di notte anche l’aria piange nel cuore del Mediterraneo e ogni lacrima distillata dall’osservazione e dall’intuizione, spinta fisicamente dalle pietre sino alla pianta, diventa profumo di zagara, zucchero, vitamina C.

Queste pagine sono poesia, quest’isola è poesia.

U jardinu è una metafora della condizione dell’isola. Chiusa dal mare nella solitudine profondissima del Mediterraneo ha uno sguardo verticale: dalla terra strappata con le unghie al vulcano, coltivata con fatica e con un ordine a tratti metafisico, dritto sino al cielo, che, nelle notti limpide, mostra la coltivazione serrata, intensiva, delle sue costellazioni.

Non è solo una mia impressione quella che la scrittura, la poesia, abbia a che fare con Pantelleria. A specificarlo è l’autore, tra una descrizione e l’altra, incursioni della storia e chicche antropologiche e sociologiche di questo luogo impossessato dalle forze della natura, dove la “meteorologia [è] sempre sopra le righe”. “Pantelleria è senz’altro uno dei posti del mondo in cui il linguaggio si è più esercitato a trasformarsi in geografia” dice Calaciura. Dell’isola hanno narrato le genti che vi sono approdate, le lingue che l’hanno popolata, stratificandosi, ibridandosi, contaminando dialetti e lingue nobili come il greco, l’arabo, il latino. Ho imparato così che

I nomi dei luoghi di Pantelleria suonano di meraviglia, di avventura, di donne bellissime, di Mille e una notte, di guerrieri. […] A Pantelleria si ha sempre la sensazione di trovarsi in bilico su un confine antico, non solo geografico, ma culturale, temporale, sensoriale, tra ciò che si capisce e quanto si intuisce con vista e udito.

È un risuonare di c e k dure, di suoni aspirati, di mondo arabo fuso con Sicilia, di francese, italiano e Magna Grecia, di navigatori e agricoltori pronti ad aspettarsi di tutto: l’isola improvvisa, stupisce, regala emozioni inesistenti altrove, e sfida, sfida incessantemente. “La mappa di Pantelleria è una Babele, una vertigine”.

Leggo tra le pagine che, nella massa di turisti che ogni anno ormai cavalcano l’onda del turismo di massa passando le ferie a Pantelleria – e qualcuno anche acquistando un dammuso ispirato dalla bellezza del luogo e dalla sensazione di infinito che questo sperone di terra in mezzo al mare regala -, anche Gabriel Garcia Marquez vi arrivò, fresco di Nobel e pronto a fare sue anche le piccole storie di pesce dell’isola, come ogni scrittore reattivo ai fatti, alla gente, al mondo.

L’isola è una scrittura, agitata di inchiostro magmatico raggelato in pantelleriti e cossiriti, chimica minerale del vulcano che è anche un prontuario di geologia universitaria. È una calligrafia nervosa di liquidi e venti, svolazzi di amanuensi nei riccioli aguzzi di lava, smorfie cementate per sempre in un brivido di vapore al contatto del mare […] Pantelleria è un’isola per scrittori.

Ecco la conferma: a metà del libro io sono già innamorata di Pantelleria, attratta da quella scrittura del paesaggio e da tutte le possibile scritture che potrebbero derivarne.

L’isola, ormai l’ho capito, è “una sedimentazione antichissima di civiltà osmotiche che continuano a dare notizie, a informarci di quanto fosse centrale l’isola nei traffici, nell’immaginazione dei popoli, nella concretezza degli scambi”. Ecco perché oggi questo habitat è così speciale: isolato da tutti, frequentato allo stesso modo da tutti, e pietra dopo pietra, ogni civiltà vi ha lasciato qualcosa di proprio. Pantelleria sembra un posto di tutti e per tutti: aperto, spalancato ai venti e alle correnti: è un posto invitante, seppure estremo. Leggo che anche il pirata Dragut vi passò, a portare le stesse razzie che ogni anno lo Sbarco dei Saraceni di Laigueglia, il borgo di mare in provincia di Savona che ho occasione di frequentare, ricorda tra fumi di battaglia, lanci di palline dalla spiaggia e fuochi artificiali. Ecco: c’è un po’ della mia storia, dei miei luoghi, dei bastioni sul mare e della violenza vissuta dalla mia terra anche a Pantelleria. Le storie di mare sono affascinanti anche per questo.

Eppure la storia di Pantelleria racconta tanto anche della terra, delle pietre e di come l’uomo le abbia affrontate nei secoli, Calaciura chiama l’isola “lo snodo tra geologia e antropologia” per tutte le sfide che vi si sono succedute, tra dammusi, jardini e presenze umane. C’è la scommessa dell’aeroporto mussoliniano, ci sono le costruzioni turistiche moderne, ma scopro esserci stati anche i bombardamenti della seconda guerra. Cartoline, frammenti e voci che insieme restituiscono un profilo complesso di un luogo che forse per alcuni esiste solo in estate, isola delle vacanze, ma che pulsa 12 mesi l’anno, e talvolta vede anche la neve. Mi sono innamorata di questo libro e di quest’isola a spasso per le pietre di Pantelleria, le sue non-spiagge, i venti che l’hanno plasmata insieme alla forza implacabile di una Natura che la domina, piegandola alle sue regole, ma che insieme la anima, accendendola di colori, profumi, sensazioni, e di quell’emozione panica, il sentirsi in mezzo al Mediterraneo, crocicchio di civiltà e storia, ombelico del mare, frutto di un’esplosione della terra, laggiù nell’abisso, che propone placida la sua sfida all’uomo che la abita, e che le resta tenacemente e profondamente attaccato.

Uno “sputo di lava e di ossidiana nel cuore del Mediterraneo in vista dei deserti d’Africa” che racchiude un mondo intero, un universo che dopo aver letto questo libro, più che mai, ho tanta voglia di scoprire dal vivo.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!