Che insolita sorpresa è stata La locanda dell’ultima solitudine, il primo romanzo di Alessandro Barbaglia, libraio di Novara, uscito lo scorso gennaio per Mondadori. Una sorpresa perché da tanto, tantissimo, non incappavo in una storia a tinte pastello, così delicata e fiabesca. Una sorpresa insolita perché davo per persa la capacità di raccontare per metafore facendosi giocoliere delle parole, funambolo della narrazione. Già che uso questa immagine, mi viene da pensare a una canzone di Samuele Bersani, “Il pescatore di asterischi”, che racconta per immagini poetiche il senso di una storia d’amore. Beh, il nocciolo di questo romanzo sta qui, nella delicatissima poesia che petalo dopo petalo lascia intravedere il senso profondo dell’amore, e della vita stessa. Non importa tanto il realismo, nemmeno troppo la logica: importa intrecciare parole, sogni e cuori che battono alla vita. Se accetterete questo compromesso, sarete i benvenuti nel mondo del romanzo di Barbaglia, nonché ottimi clienti per la Locanda dell’ultima solitudine, che vi attende sognante sulla prua del suo scoglio. Ma andiamo con ordine.

Libero e Viola sono i protagonisti di qusta storia che inizia con una scommessa assurda e intessuta di magia: prenotare un ristorante – e non un ristorante qualsiasi, perché si tratta della Locanda dell’ultima solitudine – per una data che arriverà tra…10 anni. Libero telefona, e prenota per due. Sa che la troverà, che quel giorno, tra 10 anni, troverà la compagna perfetta per entrare in quel sogno fissato sulle ordinazioni di un locale insolito. Alla Locanda dell’ultima solitudine, che si trova tra bosco e mare, ed è costruita tutta in legno,  c’è infatti un solo tavolo, a due posti.

Riuscirà il nostro eroe, puro e, nomen omen, libero da schemi e cliché, tanto da vivere in una casa vuota, con sole pareti blu mare, e un cane che ogni tanto sparisce e che si chiama Vieniqui, a ricordarsi della prenotazione e a portare la sua bella alla Locanda? Qui, lo immaginerete, entra in scena Viola, e quando lo fa è ancora molto, molto distante dalla trama del destino di Libero. Viola, fiore tra i fiori, è uno spirito ribelle che, tra un padre sparito di casa perché impaurito dalla vita e una mamma che, da tradizione di famiglia, di mestiere accorda i fiori (sì, avete letto bene: questo è un libro che vi chiede poesia, e la poesia spesso non è realtà ma una sua lettura sinestetica e metaforica), si incastra male nella sua nicchia, e dal suo paese, alla fine, decide di andare via alla scoperta del mondo.

La vicenda è innescata: una meta e due personaggi, due vite che si svolgono srotolando e scontrandosi con tanti imprevisti poco poetici e molto, molto realistici. Arriva, insomma, la vita vera, che frena i galoppanti sorrisi sognanti, mette in cantina i bauli per il futuro (il baule non è casuale, occhio!) e raffredda l’atmosfera. C’è però di buono che Libero è fedele alla propria natura di personaggio puro, e dunque, dopo averlo un po’ perso a causa di un abbaglio, ritrova il proprio filo e… No, non ve lo guasterei per nulla al mondo: il finale va gustato, a suon di sorrisi di intesa ed “e vai!” mentali che penserete con i protagonisti.

La prima associazione  mentale che mi viene da fare ripensando a questo libro è quella con Gianni Rodari. Sarà per l’ambientazione (bellissima, a tal proposito, la storia della Locanda e della sua costruzione, bella ancora di più oggi che scrivo e che è il 25 aprile), sarà per i giochi con il linguaggio e con le parole, o per la leggerezza che sa mescolare note di infanzia al senso assai più esteso della vita. Oltre alla Liguria della Locanda, in questo romanzo c’è tanto del Lago d’Orta (per i rodariani: sì, quello del Barone Lamberto!), di un Piemonte nord orientale che conosco e i cui racconti mi sono familiari. L’occhio di Rodari guardava lì: difficile non associare a lui la leggerezza studiata del linguaggio e i voltafaccia ironici delle parole, che all’improvviso schiudono signficati nuovi e impensati rivelando sia la magia giocosa del lnguaggio sia un’attenta e limpida presenza dell’autore, ai comandi del romanzo. Questo pizzico di leggerezza sapiente è la nota che rende la lettura del libro di Barbaglia frizzante e che la colora di quella stessa atmosfera creativa che Rodari sapeva infondere ai suoi racconti. Bello, da gustare con un sorriso complice, per acconsentire alla macchina straordinaria delle parole di entrare in funzione e allestire il suo mondo possibile.

L’altra suggestione che mi viene da questo libro è legata ancora ai luoghi, perché da quei luoghi, Lago d’Orta e dintorni, proviene un’altra lettura che per molti versi mi ha ricordato questa, ed è La ragazza delle arance, di Jostein Gaarder. Stile, voce e atmosfera diversissime. Ma c’è il tema del destino, degli incastri straordinari che il caso a volte sa offrire alle persone, dando vita ogni volta a qualcosa che, da fuori, ha l’aspetto di un romanzo, di una storia unica. Ecco, Barbaglia ha il dono di raccontare con estrema delicatezza, e con un gioco letterario che rima con le favole, questo tema, quello del destino, degli incontri, della centralità dei sogni. Insomma, il succo concentrato e reso per metafora della vita. E a discapito della letteratura “seriosa” (che pure è determinante, per carità!), ha dalla sua la  leggerezza, quella capacità di vedere le cose dall’alto che Calvino considerava tra le chiavi di lettura per il nuovo millennio nelle Lezioni americane.

Ultima nota poetica, l’autore. Alessandro Barbaglia fai il libraio a Novara, nei ringraziamenti in calce al libro racconta di come questa storia, quella della locanda, di Libero e Viola, avesse preso forma su appunti, pazientemente riordinati e ricuciti per dar forma al romanzo che oggi campeggia con la sua copertina al chiaro di luna nelle librerie… quelle degli altri, e con tutta probabilità anche quella di Novara dove lavora lui. Pensare che Libero e Viola abbiano preso forma tra le pareti di una libreria dà loro qualcosa di ancora più poetico e sognante, li radica nella magia dei racconti e delle narrazioni, dove tutto accade, dove talvolta si trova anche lo specchio rovesciato delle nostre realtà, e dove impariamo a non smettere mai di immaginare.

Ah, ricordatevi di non prendere impegni il prossimo 20 luglio…

L’uomo coi baffi prende un foglio bianco, piccolo, di quelli buoni per scrivere le ordinazioni da portare a Enico, in cucina, e ci scrive sopra quacosa. In stampatello. Calcato dell’inspiegabile rabbia che quel tipo gli provoca.
LIBERO, scrive. E poi quella data fatta tutta in un futuro imprevedibile.
“Vuol sapere una cosa? Alla fine secondo me lei non verrà. Anzi, ci scommetto un bicchiere di vino. Lo berrò alla sua salute, il 20 luglio del 2017, quando non la vedrò arrivare. Lei è giovane, si illude che per mettere tutto il mare in una bottiglia basti solo immaginare di farlo…
Forse basta solo immaginare una bottiglia molto grande. Che ci vuole a venir lì tra dieci anni? Basta aspettare!”
“Mi basta aspettare” pensa Libero.
“Mi basta trovarla” è la coda di quel pensiero.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!