Non avevano torto gli amici che mi hanno detto Sì, guardalo, vedrai che ti piace, merita! Parlo di Noi e la Giulia, film che sì, è uscito nel 2015, ma che fa parte di quel grande baule di “cose” che nel mega flusso mediatico quotidiano mi perdo per strada. Per fortuna, ogni tanto capita la coincidenza giusta e riesco a recuperarle.

Tipo ieri sera, quando Noi e la Giulia è passato su Canale5 e l’ho acchiappato al volo. È vero: non sono abituata a guardare la tv, il mio standard è il tappeto sonoro costituito dai talk politico-giornalistici di La7, per cui l’idea di piazzarmi a vedere un film era già impegnativa di per sé. Però, come tutte le storie che si rispettino, una volta che hai visto come inizia, come si dipana il problema e hai conosciuto i personaggi, poi vuoi sapere come va a finire, e in questo il film di Edoardo Leo riesce a meraviglia.

La vicenda è intessuta di commedia, e ci sta: alleggerisce. Alleggerisce un tema che non è affatto da ridere, come è in realtà l’intento del film, che giustamente è condito di battute, scene divertenti, storie e gag esilaranti e di cui gli attori – Edoardo Leo,  Claudio Amendola, Luca Argentero, per dirne alcuni – rendono perfettamente lo stile scanzonato. Però c’è il grande tema del lavoro, della possibilità di fare quello che dà sostanza e gioia alla nostra vita, di fallimenti, di mafia, di ingiustizie, di paure e di felicità.

Sarà un cliché abusato, ma quando il personaggio di Argentero dice “siamo la generazione del piano B”, io un po’ coinvolta mi sento. È vero, non sono nella fascia dei quarantenni, ma in quella subito dopo, i 30 che sono “i nuovi 20”: i 30 che nell’epica di famiglia ti vedono a posto, maturo, sistemato, fermo nelle tue decisioni di vita, lavoro e famiglia, così sicuro e stabile che mai ti guarderesti allo specchio svelandoti la tua natura di fallito. Attenzione: ho detto stabile. Una parola che oggi, l’epoca della precarietà eterna (ce lo ricorda la natura per prima, con terremoti e devastazioni dietro l’angolo), non è più consentita. Infatti è tutto instabile, liquido, direbbe il compianto Bauman.

A vedere il bicchiere mezzo pieno, tutta questa precarietà è quello che ci permette, però, di liberarci di alcune gabbie. Sono le stesse che soffocano i tre protagonisti, diversissimi e tutti, a loro modo, falliti agli occhi della routine sociale ed economica. Si può investire, anzi, talvolta è necessario: per liberarsi, per darsi nuovo ossigeno e costruire a suon di mattoncini impilati qualcosa di nuovo, fatto a nostra misura, che ci rispecchia e dà forma alla nostra aspirazione.

E qui, nel film, si apre la storia, fatta di inceppamenti non proprio legittimi, incidenti, decisioni assennate, imbrogli, paure e pericoli (no, non vi dirò nulla perché se non lo avete visto vi rovinerei le sorprese), ma sempre a fin di bene, con la salda convinzione di aver messo in moto qualcosa che va, che può salvarci, anche e nonostante tutto. La storia che racconta il film non è quella della salvezza, non c’è un pieno successo, non c’è una meta raggiunta, oppure sì, perché la meta, qui, alla fine, è arrivare a capire tutto questo: che è possibile, nonostante tutto, riprendersi la propria vita, dare respiro alle proprie ambizioni. Costerà fatica, costerà anche rinunce. Ma si può fare. E allora ci sarà una strada che porta chissà dove, una macchina, un gruppo di amici improvvisati, qualcosa che nasce, un orizzonte da esplorare con una fiducia rinata in sé e negli altri. Eccolo il nocciolo, è tutto lì, nei pensieri del personaggio di Argentero, nella scena finale:

Nasciamo con le mani piene, per questo da neonati stringiamo i pugni, perché abbiamo i doni più meravigliosi che si possano desiderare: l’innocenza, la curiosità, la voglia di vivere! Poi però veniamo allevati nel timore di Dio, quindi non possiamo farcene una colpa se poi abbiamo timore anche di tutto il resto. Siamo cresciuti col mito del posto fisso, la carriera, il successo, per questo ci sentiamo sempre poveri e inadeguati, stiamo scappando perché non ci hanno dato le armi buone per resistere, e quando scopriamo che la nostra squadra del cuore non ci ricambia, che la nostra amica banca si ricorda di noi solo se andiamo in rosso, che il lavoro della nostra vita la nostra vita la vuole tutta, ci sentiamo sconfitti! Ci sarebbe bastato poco, tipo avere dei sogni davvero nostri, partoriti dalle nostre ambizioni e non dalla sala riunioni di una multinazionale. Devo imparare a richiudere i pugni, come da neonati, per tenere stretta in mano la nostra vita. Adesso saremmo un gruppo di normalissimi esseri umani, che se la fanno sotto dalla paura, ma hanno le palle per girare la macchina e tornare indietro… Invece noi siamo fermi qui, insieme, noi e la Giulia, però chissà… La nostra storia non è ancora finita. Questa giornata poi è appena iniziata!”.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!